di Matteo Bonfanti
Sto andando dallo psicologo, Aurelio, un bravissimo tipo, accogliente, colto e intelligente. Non guarda l’orologio, probabilmente manco ne ha uno, così finisce che l’ora canonica di trattamento diventi un intero pomeriggio di racconti. Studiamo la mia infanzia per capire la serie di sbagli quotidiani che faccio ora. E’ il mio ottavo martedì con lui, non sono guarito, credo sia un po’ presto, le mie ansie sono ancora tutte lì, e certi giorni paiono ultras che popolano le tribune del mio stomaco tanto si mettono a fare casino.
Non ho smesso di fumare, che era il mio primo intento, anzi faccio peggio di prima, e non ho ancora trovato il coraggio di dire addio al me stesso che in questi anni mi ha fatto tanto soffrire. Ma ci sto provando davvero, mi alzo col desiderio di lasciarmi o, quantomeno, di prendermi una pausa di riflessione. Premetto che sono un po’ tarato e ho dei testimoni, anche qui in redazione, sta di fatto che mi capita, mi metto allo specchio e mi parlo, cercando il modo giusto per dire addio all’uomo sconclusionato e un po’ stronzo, a tratti perfido, che ho davanti.
Questa mattina credo di avere fatto il tentativo più convinto di mettere fine alla nostra relazione partendo da lontano, prendendola alla larga, rassicurando l’uomo rosso e barbuto di fronte a me che non stava accadendo nulla di grave: “Matti, senti un po’, promettimi che non fai tragedie o scene da baraccone… Sai che è difficile, è quarant’anni che stiamo insieme, sei la persona più importante della mia vita. Mi piaci, non ho dubbi, non mi annoi mai, spesso mi fai ridere, mi diverti. Sei una bestia in ogni cosa che fai, ma va detto che ti impegni sempre un sacco. Fai disastri quotidianamente, ma ritengo comunque che in fondo tu sia buono, insomma i casini non li fai apposta, la colpa è della memoria da criceto che ti hanno consegnato dio e i suoi sottoposti all’atto della partenza in questa nostra terribile esistenza insieme. Mi prendo un attimo e ti dico il mio pensiero d’un fiato”.
E l’ho visto, il mio io che mi guardava sgranando gli occhi, straordinariamente cucciolo, da coccolare e da proteggere dopo una settimana a fare lo zingaraccio nei peggiori bar della Bergamasca: “Non guardarmi così. Mi dispiace, ma così non vado avanti. Il calcio, le sigarette, le birrette, il mal di testa, la musica, la confusione, le notti in giro, le parole, le bugie che racconti, i sensi di colpa al mattino, poi il calcio, le sigarette, le birrette, il mal di testa, la musica, la confusione, le notti in giro, le parole, le bugie che racconti, i sensi di colpa al mattino, quindi il calcio, le sigarette, le birrette, il mal di testa, la musica, la confusione, le notti in giro, le parole, le bugie che racconti, i sensi di colpa al mattino. Capiscimi, sono ormai entrato negli anta, sono cresciuto, non sono più un adolescente cretinetto, ho voglia d’altro, ho bisogno di staccarmi, di avere un momento tutto mio. Ti mollo”.
E il me riflesso, il mio cinquanta per cento che da un buon ventennio sogna la stessa fine di Jim Morrison, in vasca da bagno, strozzato dal vomito, si è messo a piangere: “Non lasciarmi, mi conosci, non sopporto gli addii. Cambierò, faccio il bravo, lo giuro sulla mamma, dammi una settimana, una piccola prova. Se non funziona, vai via”.
E ci siamo baciati. Come fanno le ragazzine allo specchio quando si allenano per limonare. Ma non ho sentito nulla, neppure un brividino, non mi amo più. Domani provo di nuovo a lasciare Matteo Bonfanti. Vi dirò.