di Evro Carosi*

Nella periferia di Milano, negli anni Sessanta, c’era un campo incolto che ancora resisteva ai morsi del cemento. Il campo era di proprietà di un certo Leonin, alto giovanottone ed uno degli ultimi contadini della zona.  Leonin girava per le vie sul suo carro trainato da un bianco cavallo da tiro, che, visto da lontano, pareva avere le stesse nobili fattezze di quei cavalli che tante volte abbiamo visto montare da re e dittatori di ogni genere.  In quel campo noi eravamo soliti giocare interminabili partitoni di calcio. Si giocava senza arbitro, senza linee di fondo ed indossando i vestiti di tutti i giorni. Leonin però non voleva si calpestasse il suo terreno, perché, pur incolto, il terreno era il suo. Per farcelo capire non usava giri di parole, ma si lanciava urlando al nostro inseguimento brandendo bastoni, falcetti e tutto quanto gli passasse per le mani in quel momento. Antonio, invece, era un bambino della nostra età, appena arrivato dal sud con uno dei tanti treni che, in quegli anni, arrivavano alla stazione Centrale pieni e tornavano vuoti. I suoi presero casa non lontano dal campo e lui, vedendoci giocare, si unì subito a noi con la naturalezza che solo i bambini sanno avere.
Presi dal gioco, un giorno, non riuscimmo ad avvistare per tempo Leonin che ci piombò addosso all’improvviso. Afferrai prontamente il pallone con le mani ordinando il “Si salvi chi può!”. Nessuno però si era ricordato di avvisare Antonio dell’esistenza del feroce Leonin e fu così che, anziché fuggire, l’ignaro Antonio si mise a gridare: “Es! Es! Es!” che significava “hands” (fallo di mano in inglese, liberamente pronunciato). Mentre reclamava a gran voce il calcio di punizione, il nostro nuovo amichetto fu raggiunto facilmente dal contadino che lo colpì più volte sul sedere con una specie di frusta fatta di rami secchi. Naturalmente, in seguito, tornammo ancora a giocare lì perché la passione era ben più forte della paura e, soprattutto, quello era il nostro stadio.
Su quel terreno, forse era destino, non fu mai costruito alcun palazzo, anzi oggi, proprio lì, c’è un campo di calcio in luccicante materiale sintetico con tanto di porte e di linee di fondo dove i figli di Antonio giocano abbigliati come si deve, rispettando gli orari degli allenamenti e, soprattutto, senza dover temere di esser presi a frustate da un contadino con uno spiccato senso della proprietà privata. Non saprò mai se e quanto si stiano divertendo né loro potranno mai capire quanto ci siamo divertiti noi.
Di Leonin non ho più saputo nulla, ma mi piace pensare che anche lui mandi i suoi nipoti a giocare sul sintetico che oggi ricopre quel terreno del quale era tanto geloso.
*Evro Carosi (nella foto), diggì del Berghem Soccer Team con il nome di Samuel Evro’o ed ideatore del progetto il Calcio del Gioco per un pallone senza pressioni, incentrato sul divertimento