Lo voleva la Sampdoria, o forse ci aveva fatto un pensierino la Lazio. Che fossero soltanto voci in mezzo al nulla ovattato del generale inverno o qualcosa di più, per Alberto Paloschi cambiare aria avrebbe potuto significare raddrizzare una stagione cominciata maluccio e proseguita storta, da spettatore illustre sistemato sul fondo della panchina. Perché se all’Atalanta esistono certezze accompagnate da gerarchie consolidate e intoccabili, quelle riguardano proprio il reparto di competenza del cividatese, tornato in patria a furor di popolo grazie al blitz in pieno giugno di Giovanni Sartori. Previo assenso del neo mister Gian Piero Gasperini, anche se rimane il fondato sospetto che il colpaccio fosse stato pensato in origine per consegnare le chiavi della macchina a Rolando Maran.

Niente seconda punta mobile ma fisica alla Thereau come ai bei tempi del Chievo, qui a Bergamo: questo, secondo la vulgata corrente, il motivo principale del flop del reuccio del calciomercato estivo, scontento allo Swansea e figuriamoci su questi lidi, dove amichevoli estive a parte è ancora all’asciutto. Recentemente ha rivisto la luce per modo di dire, perché gli scampoli nella tana della sua rampa di lancio gialloblù e a Roma contro i blucelesti, rispettivamente come cambio di quell’Andrea Petagna che gli sta mangiando in testa da titolarissimo e dell’arma tattica Kurtic, sono due lampi nel nebbione. Tant’è vero che non vedeva il campo dall’ultima allacciata di scarpe dal primo minuto, l’infrasettimanale del 26 ottobre a Pescara con la zuccata di Caldara ad affossare il Delfino. In avanti i giochi erano fatti fin dal giorno della rivoluzione tattica del Gasp, compiutasi esattamente trenta giorni prima e sempre all’Adriatico-Cornacchia: lunedì 26 settembre, posticipo con il Crotone, lo sloveno alzato davanti alla linea di mezzo e pronto a inserirsi a destra, col triestino centravanti e Gomez ad allargarsi a sinistra o a girargli intorno secondo necessità. Tutti e tre a segno, fine dei discorsi, non si cambia nemmeno per scherzo, solo per necessità estrema. Quindi mai. E la stagione del presunto fenomeno resta ferma al Palo, pardon alla traversa, colta allo start, quel 21 agosto sotto il cielo della Maresana trapuntato di stelle laziali. Per non parlare del rigore del possibile 1-1 ciccato a Cagliari, un macigno sulle speranze del ragazzo della Bassa orientale di cucirsi la maglia addosso.

L’evoluzione del gioco nerazzurro e i suoi protagonisti, comunque, hanno dato ragione alle scelte di chi è deputato a farle. Petagnone è un interprete straordinario del nuovo corso. Perché se il mirino tende ad appannarsi, e cinque gol fanno di lui solo il vice-cannoniere alla pari con lo slavo e a un’incollatura dalla strana coppia Kessie-Papu (due e uno dal dischetto, però), il suo modo di stare in campo è da standing ovation: si allarga (il gol ai Pitagorici, su lancio di Masiello, è iniziato a destra) e stringe, chiama la profondità al difensore o lo aggira lo stesso, cerca l’uno-due con chiunque passi nei paraggi, a volte funge da regista-smistatore quando vede avanzare i portalettere pronti all’imbucata di corrispondenza da tre punti. Lo stakanovista argentino (saltato solo il Pescara in coppa), dal canto suo, è l’unico chiamato a inventare e improvvisare sullo spartito, ma se si limitasse all’assolo non sarebbe fondamentale per la causa: leadership sì, altruismo e pieno inserimento nei meccanismi pure, da cuoco capace di trasformare in manicaretti le sgroppate di uno Spinazzola quando si forma la catena sulla sinistra. Gli altri? Il paragone coi grissini in attesa che il pizzaiolo e il cameriere facciano il loro pare l’unico calzante. Di pietanze, coperto e contorno si occupano già quelli allineati al via. A dirlo sono le rarefatte comparsate in campionato del serbo Aleksandar Pesic. Gloria effimera (gol del 3-0 finale) da esterno alto a sinistra in Coppa Italia col Pescara il 30 novembre scorso nel tridente con D’Alessandro, cambio preferenziale del numero 10 anche se è un’ala e all’inizio lo si vedeva a destra nel 3-5-2, e il ’99 Christian Capone (4 panchine in A) falso nueve. Ma soprattutto impieghi saltuari da riservista contro Napoli, Bologna, Juve, Udinese, Empoli e Torino. Senza incidere, anche se a quello, vedi sopra, pensano i soliti noti. Emmanuel Latte Lath, ivoriano della Primavera maggiorenne da un amen, ha fatto sensazione per aver bucato la Juve nell’illusorio 2-3 allo Stadium, da confinato speciale nel trofeo della Coccarda. Mauricio Pinilla, rigore decisivo all’Inter e sipario abbassato, se n’è andato e non ritorna più. A dare nuova linfa, ora, uno che va verso i trenta come Anthony Mounier, direttamente dalla finestra di gennaio di un calciomercato che non ha avuto il potere di rimescolare le carte in tavola. Che sono pochine. Arrivederci al prossimo raffreddore. O al disvelamento del mistero Bryan Cabezas, l’ecuadoriano del ’97 che parte dalla mancina ma non è mai arrivato a destinazione.

Simone Fornoni