Mi chiamo Matteo Bonfanti, a febbraio compio quarant’anni e c’è questo momento della mia vita: ho vissuto un paio di mesi all’inferno e da una settimanella mi sembra di essere ritornato sul pianeta Terra, ma la mia crisi esistenziale è stata talmente lunga e senza finestre che lo scrivo a bassa voce, toccandomi quell’attimo. Si sa mai che domani ci rifinisca dentro mani e piedi, fino al collo, a camminare solo soletto per le vie del centro con la barba lunga, la faccia gonfia, la cinquantesima sigaretta della giornata in bocca, la quinta Tennents sotto braccio, mille cattivi pensieri nella testa, e nella panza un ovo sodo grande come un cocomero. Non va su, non va giù, mette addosso un’ansia fitta e fa apparire tutto tristissimo, persino il giovane boy scout che fa attraversare la strada alla vecchietta cieca, povera e priva del pastore tedesco d’ordinanza, o i ricordi dei vecchi amici su facebook o i miei due figli che giocano sul tappeto all’ultimo episodio di Star Wars.
Racconto l’aneddoto, ne vale la pena, descrivo onestamente l’attimo in cui ho toccato il punto più basso della mia personale discesa negli inferi. Venerdì, reduce dall’ennesima notte a sbronzarmi pesantemente, sono entrato da Bertoldo Bertoldino. Erano le sette di sera, volevo una birretta rossa ad alta gradazione dopo due pacchetti di Marlboro, ma non avevo con me il portafoglio, mi sono messo a rovistare nelle tasche e ci ho trovato un euro. Il barista mi ha guardato con un punto di domanda gigante sulla fronte, io, imbarazzato, gli ho chiesto un bicchiere d’acqua frizzante. Mi ha sorriso teneramente ed ha guardato il titolare, poi mi ha detto: “Tranquillo, te lo offriamo noi”. Dovevo essere messo malissimo, identico a un barbone, ma peggio, col naso rosso da far schifo, discretamente deforme.
Non so se sia stato lì oppure il mal di testa del giorno successivo resistente a dodici Moment o il costante sudore delle sei di mattina o la frase di un film su un cuoco sballone realmente esistito (“distruggersi a vent’anni è poetico, a quaranta è penoso”) o, ancora, il tormento dell’insonnia nonostante le otto pastiglie giornaliere di melatonina, di certo ho sentito che mi era cambiata la stagione, che avevo una folle voglia di tornare bello, sano e felice.
Non sono un pentito, ho passato il mio ultimo decennio a bere e a fumare, sono due cose che mi piacciono da morire e che continuerò a fare, ma devo fermarmi un po’ per capirne l’uso. Per carattere tendo all’abuso, con qualsiasi sostanza, ma anche nei rapporti, tantissimo nell’amore, discretamente in quel che resta del giorno: sul lavoro, quando scrivo, nella fissa della musica che mi gira intorno. Pure nel calcio: in campo ci sono solo io, prendo il pallone sulla trequarti e non la passo mai, preferisco perdere la sfera magica che passarla al compagno libero. Ignoro perché mi chiamino ancora il martedì e il giovedì a giocare a Orio al Serio. Nel bene e nel male mi succede che mi appassiono, terribilmente, col tempo. Spiego il mio rapporto con bacco, che è il medesimo con tabacco e Venere: inizio a bere una birretta al giorno, passa un mese e sono due, l’anno dopo tre, poi quattro, cinque, sei, ora, all’inizio dell’anno 2017, erano diventate sette.
L’alcol non mi cambia il carattere, mi amplifica i sentimenti all’ennesima potenza, li gonfia, li rende grandi e grossi e contro vento, ingombranti, pesantoni per me e per chi mi sta accanto, sempre drammatici, facendomi sprofondare nel delirio malinconico. Va detto che nel mio lavoro bere aiuta un casino: da ubriaco scrivo da dio, senza le inibizioni che quando ci sono fanno sprofondare i miei articoli nella totale noia del luogo comune. Così le sigarette: zeppo di nicotina riesco a concentrarmi, il fumo nella mia bocca dirada le nuvole nel mio cervello, rendendomi chiaro, accessibile a chi mi legge, brillante, da papparsi d’un fiato e volerne ancora un pezzetto.
Eppure mi sono rotto le balle di devastarmi. E’ come pesare le cose su una vecchia bilancia, quelle d’oro dei mugnai di inizio Novecento, da una parte la mia vita zingara, alcolista e maledetta, dall’altra ciò che mi toglie. Sono momenti che si passano, in questo vado avanti a tisanine al melograno, una alle sei, l’altra a mezzanotte, ci metto un sacco di miele, passano sei minuti e mi addormento beato sul letto di fiori che regala il sonno quando è profondo e che non avevo più almeno da un quinquennio. Torno ragazzo, ai miei quindici anni, astemio e fumatore saltuario, e riscopro delle cose che mi ero dimenticato fossero fighissime: moltissimo leggere, ora sono sulla geniale prosa di Roberto Saviano, i documentari sull’Africa nera, sulla peggio gente del secolo scorso (Hitler, Mussolini, Stalin, Gheddafi, Pablo Escobar), far da mangiare a caso con quel che trovo nel frigo, ascoltare chi mi circonda, le loro ragioni, coccolarle anche solo con un sorriso, ridere leggero di quel che mi accade, la gazzosa, il cinema, i Pearl Jam, accorgermi che non sono un bambino povero del Ciad, sicché non c’è niente che non va, non c’è da piangere né serve mettermi a fare il tristone lungo le salite di Città Alta.
Perché questo pezzo? Si scrive per se stessi, per guardarsi dentro onestamente, per darsi una mano quando si è in difficoltà. Mi sento fragile e mi serve: dire al mondo che ho svoltato quell’attimino, che mi sento di essere tornato normaloide, mi aiuta a continuare a percorrere la strada appena intrapresa.
Perdonatemi se siete dei lettori salutisti, mi scuso che vi ho fatto perdere del tempo, che è sempre poco e per questo prezioso. Ai viziosi, o a chi più semplicemente sta attraversando un periodo di merda, consiglio una lettura, s’intitola “I quattro accordi”, l’autore è Don Miguel Ruiz, un bravo tipo. E’ un libretto tranquillo, facile facile, costa poco, nove euri, e lo si legge in una serata. Sono regole semplici, tratte dal pensiero tolteco, per viversela meglio: essere impeccabili con le proprie parole, non prendere nulla in modo personale, evitare di supporre quello che pensano gli altri, fare del proprio meglio. Attenersi è difficile, una faticaccia, ma è pure piacevole, cambia il verso dell’esistenza, ci si sente nuovi di zecca, rinati. Mi sono dato un mese di prova, sono al quinto giorno senza alcol, sotto le dieci sigarette quotidiane e nella filosofia dell’antica popolazione centroamericana.  Sto bene, è ancora lunga, vi dirò in ogni caso. Un abbraccio.
Matteo Bonfanti