di Matteo Bonfanti
Lo schianto in strada, la vita che in un attimo cambia, si ribalta completamente, si apre la famosa porta girevole del destino e non c’è più quello che si era. Spazzato via. Senza avere neppure un minuto per farsene l’abitudine, si è un altro, un estraneo con cui mettersi a fare i conti. E’ accaduto anche a me, alle due del 23 marzo del 2014, la pioggia, le Ceres, la mia Vespa a cento all’ora lungo via Bonomelli, una Citroen parcheggiata alla cazzo e io che non la vedo. Ci finisco dentro, mi spacco un braccio, il gomito, una gamba, l’osso orbitale e il setto nasale, perdo completamente la pelle tra il naso e la guancia sinistra, lesiono irrimediabilmente il trigemino, un nervo di cui non avevo mai sentito parlare. Ora è tutti i miei giorni perché mi condanna al dolore, alla scatola di Moment, agli Aulin, ai pomeriggi no. E c’è un prima e un dopo, due uomini profondamente diversi, quello che ero, folle, coraggioso, strafottente e invincibile, e quello che sono adesso, fragile, titubante, perso e sensibile, a mio agio con gli ultimi della fila. Sicuramente scrivo meglio, probabilmente mi ascolto di più. E sorrido alla gente, un tempo, invece, ridevo a crepapelle di qualunque persona mi capitasse a tiro, magari risultando antipatico, un po’ stronzo. Non lo sono più, a volte i miei occhi azzurri raccontano solo la malinconia dei miei mattini, il male che mi accompagna da quando mi sveglio fino a che mi addormento, a notte alta, sul mio divano rosso.
Martedì ho visto il film su Martina Caironi, s’intitola L’Aria sul viso, e mi sono ritrovato nel solito gioco degli specchi che viviamo al cinema quando qualcuno di famoso si racconta. Ci ho trovato il mio sguardo celeste velato di pianto, la stessa fatica ad avere qualcosa in meno degli altri, l’identica misericordia per chi soffre, anche per un discorso di appartenenza ai sommersi. Ho in testa questo articolo da martedì, ieri ho cercato di liberarmene in ogni modo: ho portato un paio d’ore in giro il cane, sono andato a prendere mio figlio Zeno a scuola, ho ascoltato un paio di dischi di Rino Gaetano, l’ultimo di Brunori, mi sono fatto spiegare da Gre cosa cavolo sia la cumbia, ho chattato più o meno con tutti i collaboratori del giornale di cui sono il direttore, ho visto l’Atalanta derubata in casa della Juventus, incazzandomi, il Milan a Roma contro la Lazio, esultando per Gattuso che non so a voi, ma a me sta parecchio simpatico, mi sono bevuto un paio di Tennents al Blu Puro chiacchierando con Monica dell’amore e dei suoi misteri, ho persino visto Porta a Porta, riflettendo sull’età di Vespa, se abbia passato o no il secolo di vita tanto pare una mummia. Tutto per tenermi alla larga dalla mia tastiera nera. Ora sono qui, in redazione, e le parole mi vengono da sole, non riesco più a nasconderle.  
Lontano dagli occhi e dal cuore, Martina Caironi è la pluricampionessa del meglio che c’è oggi in Italia, ossia le discipline paraolimpiche. Ha vinto i cento metri, i duecento, la gara del salto in lungo, è primatista di un sacco di cose, arriva prima anche quando non è in forma, ha sponsor, allenatori che la seguono, centinaia di fan, insomma la ventisettenne di Alzano è un fenomeno a livello mondiale. E’ stata la stella dei giochi di Londra, la portabandiera azzurra a Rio. L’hanno premiata tutti i politici che contano, persino Mattarella, il nostro invisibile presidente della Repubblica, quello che nessuno sa bene che faccia abbia perché sta barricato al Quirinale. Con lei il fantasma democristiano cambia, brilla, chiacchiera, si fa fotografare che è un piacere. Martina è bella, forte, allenata, veloce, determinata e simpatica, Martina è una donna moderna, il ritratto di una ragazza vincente, da tenere assolutamente vicino nelle foto durante la campagna elettorale.
Dentro gli occhi di Martina, i veri protagonisti de L’Aria sul viso, c’è tantissimo altro, la malinconia di una ragazza che non potrà mai essere normale, ma chiede di esserlo, la difficoltà di chi diventa un’icona, e deve stare su un piedistallo e non cadere. Poi lo sport come riscatto, mai come una gioia, la protesi, persino la migliore, che comunque a volte fa un male del diavolo, perché è comunque qualcosa di diverso da noi, che non c’entra fino in fondo. E c’è il suo animo, profondo come il mio lago in quell’angolo scuro che sta di fronte a Mandello, là dove si radunano i mostri che abbiamo, di chi sta bene come di chi sta male. Martina tocca le corde del cuore, anche senza ascoltarne le parole, con lo sguardo e il suono della voce, particolare perché leggero, ma solo all’apparenza.
Magari mi sbaglio, forse sto parlando di me e Martina non è così. Ci conosciamo da un po’, ma ci siamo visti raramente, nel casino delle feste bergamasche e bolognesi, e non ci siamo mai davvero guardati. Qualche giorno fa eravamo all’Eritreo di via Borgo Palazzo, agli antipodi di una tavolata di amici, distanti, in più io avevo il cane a digiuno, faceva un casino bestiale, ci mancava poco azzannasse il proprietario, un africano buono buono, da mangiare in un boccone. Come sempre tra noi non c’è stato neppure un momento.
Restano le sensazioni, il prima e il dopo, quel giorno dell’estate del 2007, il pirata della strada che falcia Martina, il fratello e il loro motorino, la gamba da amputare, il destino che le apre una porta, catapultandola in un secondo ai piedi di una montagna altissima e sconosciuta, su un sentiero ripido, faticoso perché pieno zeppo di pericoli da superare, di nuove carte da decifrare. Martina Caironi l’ha percorso tutto, senza paura, diventando la campionessa che il mondo conosce. Nel film ci sono le immagini dell’atleta da bambina, lo stesso viso bergamasco, la naturale simpatia dei gesti, diversissimo lo sguardo: allora era quello di una bimbetta scatenata e furbetta, adesso ha la dolcezza dei naufraghi, sogni grandi, grossi e complicati, la cura del silenzio mentre tutti intorno fanno rumore.
Due mesi fa cazzeggiavo su facebook, per caso mi sono imbattuto in una mia amica di tantissimi anni fa, una delle prime persone che ho avuto vicino vicino quando nel 2000 mi sono trasferito qui. Ci siamo messi a chiacchierare, non si ricordava nulla, niente dei pomeriggi nella sua casina di Lallio, a bere, a fumare e a sparare cazzate. Mi ha detto: “Perdonami, ho fatto un incidente stradale drammatico e ho perso la memoria. So che la mia vita era profondamente diversa, ma ne ho scordato i particolari, le facce e le parole che mi circondavano”. Mi sono chiesto se le fosse capitata una fortuna o una sfiga incredibile, alla fine mi sono convinto le sia andata bene, che si è evitata il prima e il dopo, il mio, quello di Martina e di mille altri.