di Matteo Bonfanti

Per molti anni ho scritto di cronaca nera. E ho conosciuto il dolore che non è di chi se ne va, ma di chi resta. Così, nel mio sabato pomeriggio di lavoro, penso ad Alessandro che è ancora un ragazzo anche se non se l’è mai potuto permettere.
Prima la malattia del padre, Ivan, il presidente, un uomo dalla forza impressionante, immobilizzato in un letto d’ospedale. Penso ad Alessandro, le lacrime e la rabbia nel vedere l’arrivo dei pescecani, il loro girotondo intorno al gioiello di famiglia, l’Atalanta. Alessandro è piccolo, ma in un pomeriggio deve diventare grande. Lo fa, ci mette l’anima, le tenta tutte per non andare in Serie B. E’ bravo, ma è solo e giovane. Chiede aiuto, nessuno glielo dà e decide di lasciare.
Ora l’esecuzione dello zio Gianmario, freddato ieri mattina a Castelli Calepio. Due sicari, in moto, coi caschi: pare un film invece è successo, qui, da noi. E fa paura a me che ho quasi quarant’anni, immagino ad Alessandro che ha la metà degli anni miei ed è il nipote della vittima. Me lo immagino sul luogo del delitto mentre ripete ai giornalisti: “Vi preghiamo di rispettare il nostro dolore”. Poche parole in cui c’è tutto Alessandro, poco più che un bambino, costretto, ancora una volta, a scendere in campo per proteggere la sua famiglia, una delle più importanti di Bergamo.
Non conosco personalmente Alessandro. Lo vedo il giovedì sera alle Stagioni. Finisco di giocare a pallone e vado lì a mangiare. Lui è al banco col titolare, chiacchiera, ride e scherza, dà l’impressione di essere una persona buona. Ci salutiamo, sempre, con quel sorriso che si ha tra chi ha parecchi amici in comune e vorrebbe anche conoscersi, ma non osa.
Di Alessandro mi hanno sempre parlato benissimo: Nicola Radici, che ci è cresciuto insieme; Roberto Pelucchi che l’ha spesso intervistato. Concordano nelle previsioni: diventerà un grande.
Alessandro ha un viso gentile, pulito e cordiale. La mia speranza è che questa ennesima mazzata non gli tolga il sorriso.