di Federico Biffignandi
Saltare la partita della domenica significa non poter dare un senso compiuto alla settimana che si conclude quel giorno né poter guardare alla successiva con una predisposizione positiva. C’è un beneficio, morale e fisico, che il corpo e la mente traggono dalla partita della domenica che non è possibile sostituire con nient’altro. E quando non si gode di questo per quell’ora e mezza di gioco l’umore ne risente. Può capitare per infortunio o per squalifica o per scelta tecnica, il malessere che si prova è sempre lo stesso. E non è un vero e proprio male, è semplicemente una sorta di vuoto dentro che ti porti fino alla prossima partita, che inizia a colmarsi nel corso della settimana con gli allenamenti ma non arriva mai ad un livello soddisfacente fino a quando non rimetti i piedi in campo per giocarti i tre punti. Vuoto perché vivere la partita dalla tribuna logora e basta: per quanto tu possa partecipare e cercare di star vicino ai compagni non è mai come essere là dentro insieme a loro con una maglia addosso e un pallone che rotola intorno. Sei lì a qualche metro dal pallone ma non lo puoi toccare, non puoi decidere tu le sorti della sua traiettoria in nessun modo. Sei ad un passo dai tuoi compagni ma, per quanto tu possa incitarli, le tue sono urla che si confondono con le altre di chi sta sugli spalti e non sa realmente interpretare il linguaggio del campo, e cos finisce che la tua partecipazione risulta quasi inutile. Ma il vuoto deriva anche, o forse soprattutto, dalla mancanza di quei ‘dolori’ post partita che hanno, appunto, un beneficio diabolico sullo spirito. Sono quelli che provi non appena ti fermi e i muscoli, pieni di acido lattico, si raffreddano e cominciano a richiedere ossigeno per riprendersi. Ma sono principalmente i dolori della sera, o ancora peggio del mattino seguente. Quelli che vengono nascosti dall’adrenalina che hai in corpo ma che, non appena questa cessa di circolare nelle vene, riaffiorano e chiedono il conto, con gli interessi. Che siano le cosce, i polpacci, la caviglia o un piede, ma anche solo un leggero fastidio alla schiena o al collo: sono dolori che ti fanno sentire vivo e ti fanno capire che in campo hai lottato fino all’ultimo, ti sei battuto, divertito, sfogato, rigenerato. Sono i dolori che maledici perché magari ti costringono a dormire in modo anomalo per sentire meno male ma sono anche quelli che quando non compaiono la domenica sera sul divano o il lunedì mattina sul posto di lavoro li rimpiangi. Ed è a quel punto che realizzi ancora di più quanto si abbia bisogno di scendere in campo la domenica pomeriggio, è a quel punto che ti prefiggi di ritornare dentro al ring con più voglia e più attenzione, con più predisposizione al sacrificio e contento di aspettare il dolore della domenica sera. Sono lezioni, insegnamenti, accorgimenti che o raccogli subito o, prima o poi, il campo ti sbatte in faccia. Come ha fatto domenica, mandando nella nostra porta i palloni del 2-2 e del 3-2 negli ultimi secondi e condannandoci alla prima sconfitta dell’anno, mentre me ne stavo, impotente e colpevole, in tribuna a rammaricarmi. Per il risultato e per il non aver potuto aiutare i miei compagni per quattro stupide ammonizioni. E il ritorno a casa, senza il fiatone e senza quella sensazione di non riuscire a schiacciare fino in fondo la frizione per il crampo al polpaccio accusato al 90’ è stata la punizione più grande, quella che mi ha buttato giù ma che subito dopo mi ha detto quanto bisogno ci sia per noi di giocarci quell’ora e mezza dietro ad un pallone e mi ha fatto scattare il conto alla rovescia per il prossimo fischio d’inizio. Sarà ancora più bello, sarà ancora più “doloroso”, sarà ancora più piacevole.