di Matteo Bonfanti
Qualcosa non va, due giorni fa il triste, ma doveroso addio al telefonino, ieri l’incontro ravvicinato del terzo tipo coi vigili urbani di Bergamo.
Ve lo racconto. E’ sabato sera, è più o meno mezzanotte, sono in via Carducci, seguo la macchina di un mio socio, siamo diretti verso un bar di Mozzo dove ci aspetta una nostra amica carissima che ha il cuore infranto. Dalla lontana Brianza Lecchese mi arriva un messaggio, “chiamami appena riesci, è importante”, e, ovviamente, penso al peggio: una sfiga incredibile, che ne so un incidente a catena sul famoso “Attraversamento” lariano, qualcosa di gigantesco che ha coinvolto tutta la mia famiglia, non solo i parenti stretti, persino i nipoti di terzo o quarto grado o i figli dei cugini, quelli mai visti, gente che sta all’ultimo posto della scala Richter del mio cuore. Quindi mi attacco al mio nuovo cellulare, che è strambo forte ed è attivo da un paio d’ore grazie al certosino lavoro di Marco Neri e ancora non lo so usare, non ho nemmeno una vaga idea. Sono concentratissimo sul mobile Wiko e non mi accorgo che dietro di me c’è l’elegantissima auto bianca e verde della polizia municipale.
Ce l’hanno con me e fanno un sacco di cose per attirare la mia attenzione, luci e lucine, sempre più potenti, in stile astronave del film ET. Io intanto mi prendo una pausa dal telefonino, faccio due sorsi della Ceres che ho tra le gambe e mi guardo allo specchietto, giusto per vedere la mia situazione brufoli, drammatica perché ho un cratere giallo fosforescente sulla guancia destra e sette punti neri sul naso. Sto per schiacciare il giallone quando vengo abbagliato da un neon azzurro. All’improvviso scopro un mondo dietro di me. Penso immediatamente  all’automobile dei proprietari del luna park della Celadina, quindi accosto, immaginandomi che Dio abbia finalmente deciso di farmi il regalo richiesto in tanti anni di preghiere: la conoscenza di Drudi, feroce, possente e superdotato nano, frutto della mia fantasia, il mio amico immaginario lungo l’intero decennio 1994-2004.
Invece non c’è nulla di buono, la realtà è diametralmente opposta, è una merda: nessun dono divino, nessun simpatico nanetto pronto a uscire dal bagagliaio per darmi un forte abbraccio, all’orizzonte solo una mega multa, l’ennesima dell’anno. “Non si fermi qui, vada avanti, appena trova uno spiazzo. E la smetta di andare a zig zag”. Faccio il cane bastonato, che ho scoperto che umiliarsi mette in buona le forze dell’ordine di qualsiasi livello e di qualsiasi Paese, mi porto avanti, farfuglio una scusa credibile: “Perdonatemi, ma mi sa che a Lecco è successo qualcosa di grave grave”. Esagero: “Forse un terremoto, forse un incidente con un sacco di morti”. L’agente maschio, alto, muscoloso, pochi capelli, quarantino, nel complesso anche bellino, aitante, scopabile un’intera notte se fossi una donna, mi risponde: “La seguiamo”. Un momento di strada e siamo faccia a faccia. “Patente, libretto e assicurazione”. Guardo nel portafoglio e la patente non c’è, credo sia rimasta a Maiorca. Trovo il libretto, mi sento un ganassa e glielo consegno con aria di sfida. Rovisto nel cruscotto, l’assicurazione Sai è andata perduta perché ho prestato la mia Pandona Aranciona a mio nipote Pietro, ragazzo stupendo e talentuoso, ma casinista quanto me. “Ora, facciamo le nostre verifiche. Di buono c’è solo che non sembra ubriaco”. Prego, soprattutto la Madonna, dico sottovoce una dozzina di Ave Maria. Faccio dei patti poco chiari con la Vergine: “Se mi aiuti, divento bravo bravissimo, un fiore del deserto”. Esagero con le promesse alla mamma di Gesù: “Giuro che smetto con le serate balorde, do l’addio alla chitarra, compero un cane e vado a messa tutte le domeniche mattina”.
Quella donna buonissima che sta alla sinistra del Padre decide di aiutarmi. L’agente uomo guarda l’agente donna e mi dice: “Ha smarrito la patente, non ha uno straccio di copia dell’assicurazione, che abbiamo scoperto che comunque ha fatto, guida in ciabatte, ha una Ceres tra le gambe, ma noi le diamo solo i 169 euro di multa perché stava al cellulare”. Mi vengono le lacrime agli occhi per l’eccessiva bontà della coppia in divisa e poi la solita pippa che ho in testa da quando ero ragazzino, quella di autodenunciarmi di un omicidio che non ho fatto, così, ad minchiam, per risolvere un caso irrisolto e renderli felici, tranquilli, importanti. Suona il cellulare, è un miracolo e riesco a capire al volo come si fa a rispondere. “Ti ho detto di chiamarmi perché i bambini erano svegli, ti adorano, gli mancavi da morire e volevano sentirti per convincerti a venire qui”. Penso ai miei due figli, amori, unici, sono felice e mi viene da cantare ai vigili la canzone di Cesare Cremonini, quella della mia incomprensibile estate, dice: “Sì, dev’essere così, che tutto quel che accade ha un senso”.