Angelo, così lo aveva voluto chiamare sua madre come se presagisse la sua attitudine ad aiutare il prossimo, da grande diventò uno scrittore di successo, tanto che lo chiamavano “Il maestro”. Possiamo dire, senza sbagliarci, che era anche un bell’uomo. Il sogno erotico di tante. I suoi erano libri di successo. Sapeva raccontare di tutto e di tutti. Non gli mancava nulla. Aiutava malvolentieri i giovani scrittori alle prime armi, evitando accuratamente di fare la stessa cosa con parenti ed amici. Non amava indirizzare i giovani  verso questa o quella disciplina. Tanto meno le persone care. Ognuno, per vivere felicemente, avrebbe dovuto seguire la propria vocazione senza condizionamenti. Quando il vecchio padre si ammalò, Angelo era all’apice  della carriera. La  voglia di scrivere svanì come per malefico incanto. Non fu tanto il dolore a condizionarlo, ma quanto  l’aver notato  negli occhi del padre una luce di fierezza ogni volta che, ormai molto malato, lo incontrava. “Mio padre partirà orgoglioso di me!”. La cosa lo rendeva felice, naturalmente, ma quel pensiero finì per fargli mancare la voglia di raggiungere nuovi obiettivi. Perché avrebbe dovuto continuare a scrivere se aveva già ottenuto il più grande dei riconoscimenti? Ed infatti ripose per sempre la penna nel cassetto. La sua unica preoccupazione era diventata quella di  riuscire un giorno a pescare all’amo un branzino di almeno due chili. Mentre attendeva con ansia quel dì, passando le giornate tra la foce e il divano, accettò d’insegnare l’arte della bella scrittura alla sorella e ad un amico. Due scribacchini di bassa lega, che gli fecero perder molto tempo. Alla fine delle loro matite, che non avevano  prima d’allora fatto all’amore con un temperino, riuscì a farne penne di pavone. Il successo per i due giunse rapido e robusto. Soldi, interviste, salotti e terrazze romane che facevano a gara per averli come ospiti. Angelo apprese le loro gesta letterarie dai giornali. Non una visita al  vecchio maestro. Neppure una telefonata. Non se la prese, pensò fosse giusto cosi. A lui in fondo interessava solo poter un giorno togliere quel grosso branzino dal suo salaio.
Anni dopo, mentre gli allievi di un tempo vedevano apparire le prime nuvole foriere di tempesta, Angelo era ormai  un vero pescatore. Se salire è difficile, cadere è arte conosciuta da alcune specie animali ma non dall’uomo. I due allievi caddero pesantemente, tanto pesantemente da restare senza un soldo. Affamati e privi di fissa dimora, si ricordarono del Maestro (qui la maiuscola è d’obbligo) e intrapresero un lungo viaggio in treno, da portoghesi, verso il mare in cerca d’aiuto. Trovarono Angelo seduto su uno scoglio mentre lottava con il pesce che per tante notti aveva sognato piegasse  la sua canna. Istanti che gli sembrarono eterni. Quando finalmente tolse quella bestia  dal salaio, pianse pensando di non essere osservato. Quando si voltò vide  i volti della sorella e dell’amico guardarlo increduli. Li invitò a casa sua, cucinò il branzino e glielo offrì come cena. Mentre gustava tanta delizia, stranamente iniziò a raccontare: “Io e mio padre abbiamo pescato insieme qualche volta. Ci piaceva. Mancava solo il tempo per andarci più spesso. Per questo non abbiamo mai preso un luassù. Oggi sono davvero felice. Son riuscito a fare una cosa che sarebbe piaciuta a tutte e due. Son certo stia  provando la mia stessa gioia”. I due ospiti presero il coraggio  di chi, dopo giorni di fame, è finalmente sazio. La sorella guardò l’amico e come se si fossero messi d’accordo, chiesero in coro: “Perché non ci insegni a pescare? Potremmo vivere di quello”. Angelo, si grattò la guancia e rispose: “Prendete pure la canna, ve la regalo. Provateci e riprovateci. Io torno a scrivere. Sono sicuro che dovessi cadere in disgrazia saprò dove trovare chi non mi lascerà morire di fame”.
Evro Carosi*
*Scrittore assai famoso, è anche musicista di successo