di Marco Bonfanti
Mentre ci avviamo verso la macchina di Carlo per tornarcene a casa, Beppe dice giustamente che a guardare solo il risultato sembrerebbe peggio. In effetti a perdere tre a uno ti fa venire in mente una partita dominata dagli avversari e da loro vinta con indiscusso merito. Beh, proprio così non è stato. Il Lecco ha veramente dominato gran parte della partita, per altro per larga parte giocata nella metà campo avversaria, macinando gioco e creando occasioni. Ma i gol non sono venuti. Mentre, come si dice parlando in calcistico corretto, quelli del Caravaggio hanno saputo ben capitalizzare le loro occasioni, tra cui, l’ultima, in anticipo sul Natale, veramente regalata dalla nostra evanescente difesa. Abbiamo, tra l’altro, sbagliato pure un rigore e per segnare abbiamo dovuto riprovarci, sul secondo tiro dal dischetto concesso da un arbitro malleabile alle nostre esigenze. Così, diciamolo come si dice, va il calcio, non si vince ai punti come nella boxe, a gol sbagliato gol subito, e via discorrendo.

Intanto, in settimana, il nostro amato allenatore dal pulloverino blu Butti ci ha lasciato, dando delle irrevocabili dimissioni, pressato dalle contestazioni dei tifosi, dalla figuraccia rimediata in settimana in coppa Italia (1 a 5 contro l’Inveruno) e dalla mancanza di solidarietà da parte di una società, che assai probabilmente non esiste neanche più.  Gli subentra il secondo, che di cognome fa Ratti. Dal che la già pronta facile ironia: “con il nuovo allenatore sem nà a ciapà i ratt”.  E questo lo penso già sabato, ma poi, nella notte e nei suoi pensieri mi viene il dubbio che di questa espressione non so l’esatto ed esteso significato. Così a pranzo rendo edotti i miei compagni dei miei limiti di comprensione e, come sempre, mi viene in aiuto Beppe con la sua pazienza pedagogica, che peraltro subisco sin dalla più tenera età. “Va  a ciapà i ratt”, mi spiega, si dice a qualcuno che ci si vuole levare di torno perché ci ha stufati (stufati come quelli di asino che stiamo mangiando). Perché prendere i ratti è lavoro lungo, dispendioso, ma soprattutto improduttivo, essendo che, per quanti ne prendi, ce ne saranno sempre altrettanti, o di più, da prendere. I roditori non finiscono mai, quindi hai voglia a prenderne, quelli che restano fuori dalla caccia continueranno ad essere innumerevoli.  E allora facciamo che l’ironia calza a pennello alla partita del Lecco che, per tutto l’arco della gara attacca a lungo, in modo dispendioso e in maniera, visti i risultati, del tutto improduttiva.  Eravamo lì a mangiare. Prima, come si conviene per chi va a Caravaggio, eravamo andati a visitare il santuario. Da questa istruttiva visita vengo ad apprendere che la monumentale costruzione è stata eretta perché la Madonna, innumerevoli anni fa, è apparsa alla contadina Giannetta.  Ora ti aspetteresti, vista la mole dell’edificio, chissà quale cosa. Invece la Madonna è apparsa una sola volta, e non in serie come in altre occasioni, alla giovane del posto. Cosa che a me ha fatto molto amare l’evento perché, sottoposti come siamo alla ripetizione infinita di qualsiasi cosa, questa apparizione unica e fugace è proprio bella. Poi, ancora, la Madonna non svela segreti, non predice il futuro e non la mette sul tragico. Dice semplicemente alla contadina che, cito a memoria, sono sette anni che prega Dio di salvare l’umanità (possono sembrare tanti, ma essendo che Lui è eterno se la può prendere comoda),  e poi raccomanda di fare digiuno il venerdì e di mangiare liberamente il sabato. E questa Madonna affabile, quotidiana, terra terra non può non piacere. Fuori dal santuario ci sono poi tante raffigurazioni fatte su questo tema in vari luoghi della diocesi. Giannetta, cioè l’illuminata, è sempre immortalata con un grembiule, spesso a righe bianche e rosse, colori che poi ritrovo sulle maglie del Caravaggio, ma non so se per scelta o pura coincidenza. E siamo così tornati alla partita. Unendo il sacro ed il profano ci viene da concludere allora che: il Lecco non ha visto la Madonna, ma neanche la porta.

Nel disegno: Caravaggio nell’immaginazione di Martina Nazzaro, di anni sette