di Matteo Bonfanti
Tra le pagine chiare e le pagine scure il calcio dilettanti  riesce sempre a regalarmi attimi di poesia, ricordi meravigliosi di quando giocavo, male, nelle peggiori squadre del Lecchese. Mi divertivo un sacco, ma ero un bastardo senza gloria perché zeppo di cuore, ma privo dei famosi piedi buoni e soprattutto del guizzo del campione, quello che non capisci perché la dà a sinistra, ma poi viene fuori un golasso e ti accorgi solo dopo che ha fatto la cosa giusta, qualcosa che tu non avresti mai pensato.
Non è il caso di Morris Ruffoni, tecnica da vendere, che tra un attimo celebreremo, in comune con me il ventiquattrenne di Calcinate ha solo una partita che io, peraltro, ho già raccontato in un libro perché mi ha cambiato il modo di pensare, convincendomi che quando si vuole una cosa, ma la si desidera davvero, succede, persino imparare a suonare la chitarra da sordo (musicalmente) quale sono.
Corre l’anno 1994, gioco a Valmadrera, mediano assai stronzo, rissoso e falloso, col compito di menare il più bravo degli altri. Siamo in trasferta a Colico, postaccio all’inizio della Valtellina, dove il football somiglia parecchio al rugby: botte da orbi a centrocampo, calci sugli stinchi quando il direttore di gara è girato, tribuna a insultare il malcapitato arbitro, a destabilizzarlo con tutte le cattiverie possibili che conosce la gente di frontiera, persone abituate a trafficare lungo il confine con la Svizzera. Noi lì, quasi cittadini, poveri spaventati guerrieri, a giocarci il primo posto nel girone. Il riscaldamento e il centravanti che s’azzoppa, al mister viene la pazza idea di farmi giocare centravanti, “perché il loro stopper ha una tecnica della Madonna e tu gli stai addosso, lo tiri matto, gli eviti di impostare”. Prima azione e segno di ginocchio, seconda e la metto di chiappa, finisce che ne faccio sei, procurandomi un rigore che manco tiro nell’1-7 finale.
Il racconto perché amo ricordare il mio giorno migliore, il solo in cui mi sono sentito un fenomeno del dio pallone. E poi perché qualcosa del genere è capitato pure a Morris Ruffoni, che non è un mediano, ma una mezzala di quelle che lottano, ma sanno pure servire i compagni al bacio.
morris-ruffoni Sipario sulla domenica appena passata nel girone D di Seconda categoria. Il Real Bolgare affronta l’Ospitaletto, che è una bella squadra, ottava in classifica, salva da un pezzo, col timido sogno della qualificazione ai play-off, traguardo che sta solo cinque punti avanti. I bergamaschi, invece, sono quintultimi, ed hanno bisogno dei tre punti casalinghi per il morale e per evitarsi un finale thrilling nella zona calda della graduatoria.
Succede che a mister Residenti viene il colpo di genio, Morris stavolta gioca dieci metri avanti, da centravanti. E il ragazzo, appena due gol in tutta la scorsa stagione, ripaga la fiducia sbloccandola subito al 2’: assist di Cuni in area, botta a colpo sicuro e 1-0. Ma il meglio deve ancora venire, alla mezzora Ruffoni raddoppia con una bordata dal limite diretta nel sette, due minuti dopo la tripletta, doppio dribbling e sfera che tocca il legno prima di gonfiare la rete. L’ultima magia al 22’ della ripresa, di quelle da manuale del calcio: pallonetto sopraffino a superare Crescenti fuori dai pali.
Che dire? Solo applausi e un pensiero divertente, chissà Morris come se la sta vivendo, se gli gira in testa il pensiero che allora tormentava (felicemente) me, quello di essere un fenomenale centravanti, senza mai essermene accorto.

NELLE FOTO – Sopra Morris Ruffoni, classe 1992, del Real Bolgare, squadra che appare in alto