di Matteo Bonfanti
Chiacchiero tanto di piantarla di essere razzisti e poi mi accorgo che lo sono anch’io. Mi è successo venerdì sera, mio cognato Marcel, un artista di strada, talentuoso giocoliere colombiano che vive in un camper, mi ha chiesto il favore di ospitare tre suoi connazionali. Me l’ha detto alla Kascina di via Ponchia, che è un posto dove si lotta quotidianamente per migliorare la vita ai migranti. E gli ho risposto da stronzo: “Marcel, va bene. Però un giorno, non che dopo si piazzano a casa mia per mesi…”. Probabilmente è stato anche il momento (o forse sto solo cercando di giustificarmi), comunque ero all’inizio di un concertino, qualcosa che ogni volta mi fa venir fuori l’immensa timidezza che ho dentro. Vincerla mi rende affaticato, pesantone, con la faccia di chi vede il bicchiere mezzo vuoto. Poi passa, quasi subito, alla prima canzone, e torno scemetto. Venerdì no, ero da un’altra parte, preso a navigare nel mare dei luoghi comuni.
Cantavo e intanto m’immaginavo la banda dei colombiani in azione in via Santa Caterina 3, col mio appartamento trasformato in quello del protagonista di Trainspotting: nella camera dei miei figli il laboratorio per la metanfetamina, in cucina lo spaccio di coca, sul divano una fila di tossici a farsi in vena, in terrazzo due ragazze in acido a tagliuzzarsi. Al quarto brano (“E la pioggia che va” dei Rokes), la mia fervida immaginazione mi aveva già fatto arrivare a ragionare sull’amaro destino della formica brianzola che sarei diventato a causa di aver detto sì ai tre sudamericani in cerca di un letto.
Questi i passaggi (per nulla) logici fatti dalla mia testolina bacata tra un accordo e l’altro:  gli ospiti esagerano con la bamba, uno sta male, è in fin di vita, arriva l’ambulanza, si crea un gran casino, i vicini vanno alla finestra a vedere che succede, quello che sta sopra di me si mette a gridare: “L’avevo detto: Bonfanti è un poco di buono, un drogato!”, compare l’articolo sull’Eco di Bergamo a firma di Isaia Invernizzi, mia mamma piange, mio babbo mi rimprovera, le assistenti sociali vengono a portarmi via i figli che non si vogliono staccare dal loro padre, interviene la polizia, ci meniamo, mi arrestano, al processo mi danno un anno senza la condizionale, nei lunghi mesi di galera arrivano a trovarmi i miei amici che mi portano le arance di cui sono allergico, io le mangio per farli felici, me ne pappo un sacco e muoio. Al funerale Marco e Monica, i miei soci qui al Bergamo & Sport, si vestono di nero, mi fanno un elogio funebre fighissimo, affrontano le spese del mio ultimo addio con un cambio-merce (pubblicità sul giornale a fronte di un servizio coi controcoglioni, ndr) con la Casa del Commiato di Monieri, che per risparmiare li convince a cremarmi, qualcosa che mi toglie la possibilità di resuscitare tra un secolo, quando la scienza troverà il modo. Sparito il mio corpo, la mia anima decide di reincarnarsi in una formica di Valgreghentino, a casa dei miei, mia mamma, che non lo sa, va in giardino e dà fuoco al formicaio, facendomi un male cane.
Torno alla realtà, a cosa è davvero accaduto venerdì sera. Finito di suonare, sono tornato in via Santa Caterina e i tre sudamericani non c’erano. Marcel, che è un ragazzo molto sensibile, ha capito che non avevo voglia di averli a casa e li ha portati in Brianza da mia cognata Giuditta, una che ha girato il mondo e che non ha addosso le mie pippe razzistoidi. Il giorno dopo la famigerata banda ha incontrato mia moglie Costanza, che era da sua sorella per via di un seminario di ecopsicologia. A mezzogiorno Costi mi ha chiamato: “Sai Mat che incontro straordinario… C’era qui una bellissima famiglia di origine colombiana, un padre con i suoi due figli, in vacanza insieme due giorni, tre persone dalla cultura straordinaria. Il babbo è uno degli organizzatori del Carnevale di Viareggio, un evento gigante, di proporzioni mondiali, i ragazzi sono studenti del Liceo Classico. Parlarci è stato esaltante, erano dolcissimi e sapevano un sacco di cose, peccato avessero poco tempo. Erano diretti a Gardaland, un posto che sognavano di visitare da quando erano bambini”.
Mi sono sentito un povero scemo, riproponendomi per il 2017  di piantarla coi luoghi comuni, che i colombiani sono cinquanta milioni e c’è di tutto, dai premi Nobel per la letteratura fino agli scienziati di fama internazionale. E mi sono deciso che non vedrò mai più le puntate dell’Impero della Droga su Sky.