di Federico Biffignandi

L’aspetto bello, bellissimo della bicicletta – intesa come mezzo di locomozione – è che chiunque sa bene o male cosa si provi quando si è in sella: fatica. L’aspetto unico del ciclismo – inteso come sport – è, di conseguenza, che tutti quelli che guardano i professionisti alla televisione possono immedesimarsi in loro. Chi più, chi meno a seconda di quanti chilometri macinano in sella alla propria bicicletta, può capire la quantità di sforzo profuso, le sensazioni positive e quelle negative, i pensieri che passano nella mente e ogni minimo dolore muscolare che subentra. Ma ci sono delle volte in cui il ciclismo visto alla televisione ce lo sentiamo più addosso di altre volte e assume connotazioni epiche, che vanno bel oltre la mera prestazione sportiva. Ci sono volte in cui il ciclismo smette di essere sport e diventa un’esperienza di vita. Non sono molte, ma il ciclismo è in grado di tramandarle di generazione in generazione, di ricordarle per sempre: Coppi nella Cuneo-Pinerolo, Pantani sul Galibier le più citate.

Oggi sulle Alpi che da una parte guardano l’Italia e dall’altra la Francia è stato un giorno di quelli. Chris Froome (Sky), già vincitore quattro volte del Tour de France, ha conquistato la terzultima tappa del 101° Giro d’Italia dopo 85 (ottantacinque!) chilometri di fuga solitaria. I primi avversari – Richard Carapaz (Movistar), Thibaut Pinot (Gfc), Tom Dumoulin (Sunweb) e Miguel Angel Lopez (Astana) – sono arrivati con oltre 3’ di ritardo. Froome ha sfilato la maglia rosa dalle spalle di Simon Yates che era partito con le insegne del leader da Venaria Reale e è arrivato in cima alla salita della Jaffreau da sconfitto, da distrutto, da annullato: oltre 30’ il suo ritardo. Il ciclismo oggi è tornato indietro di 50 anni, abituati a vedere certe imprese in bianco e nero, oggi ne abbiamo vista una a colori. E abbiamo provato sulla nostra pelle le sensazioni – così diverse – di tutti i corridori. Siamo stati prima di tutto Yates, perché è più facile andare piano che forte. Abbiamo sentito il formicolio nelle gambe che preannuncia il morso della fatica che attanaglia, strappa, lacera ogni grammo di energia dal nostro corpo. Yates si è staccato sulle prime rampe del Colle delle Finestre quando davanti a sé aveva più di 90 chilometri da compiere, in mezzo alle alpi piemontesi. Ci siamo sentiti spaesati, disorientati, impauriti, proprio come lui. Ci siamo immaginati in sella alla sua bici, quando in quei momenti si vedono solo materassi morbidi sui quali buttarsi e la bicicletta la si vorrebbe gettare via.

Ci siamo sentiti come Domenico Pozzovivo, l’unico italiano a poter ambire ad un grande risultato, che invece è giunto al traguardo con 8’. Si è staccato a metà del Colle delle Finestre e subito si è svuotato, nella mente prima ancora che nelle gambe. Ci siamo sentiti in lui, mentre dall’ammiraglia gli parlavano e lui non rispondeva, mentre guardava alle vette alpine ancora innevate chiedendo loro perché lo stessero respingendo così, proprio quest’anno che – dopo una lunga carriera – stava raggiungendo un podio di un grande Giro. E poi ci siamo sentiti Tom Dumoulin, vincitore uscente, mentre cercava di organizzare il trenino che avrebbe dovuto andare a prendere Froome e invece è quasi deragliato. Abbiamo sentito l’incertezza, il dubbio: andare a prenderlo, o gestirsi e risparmiare qualche energia per domani? Ha gestito e nel finale è stato anche “tradito” da avversari che non hanno tirato un metro in pianura e a 300 metri dall’arrivo lo hanno abbandonato lì. Ognuno fa la sua corsa, ma ci siamo sentiti come lui, un po’ innervositi e un po’ sconfortati. Tutto questo mentre sul divano di casa mangiavamo e bevevamo tanto quanto i corridori in corsa, perché tifare e immedesimarsi risucchia energie, perché guardare le gesta dei campioni ispira emulazione per un principio psicologico scientifico, reale, dimostrato. E poi ci siamo sentiti Froome. Ristretto il gruppo di chi ha potuto sentirsi come lui perché bisognerebbe almeno una volta fare un’uscita da 4-5 ore, ma qualcuno c’è. Questi “pochi eletti” hanno sentito nella propria testa più che nelle proprie gambe il piacere di volare da soli verso un’impresa. Che è umana e personale prima ancora che sportiva. Ci si è sentiti in sella con lui, compiere un viaggio più che una tappa di una competizione; perché il ciclismo, soprattutto in queste cavalcate alpine, è un viaggio che si compie su strade che chiunque tutti i giorni possono compiere, circondati dall’imperiosità delle montagne, a tu per tu con la natura, gli animali, la terra, l’erba, l’aria, l’acqua. E’ la differenza tra il ciclismo e gli altri sport.

Abbiamo pedalato con Froome, calibrando ogni colpo di pedale, misurando ogni respiro, gettandoci addosso acqua fredda quando il sole bollente scottava le braccia e faceva pulsare le tempie, abbiamo sentito un certo sconforto quando Froome si è trovato a dover pedalare, da solo, lungo un’autostrada lunga, larga, in leggera pendenza. Abbiamo ancora mangiato e bevuto con lui, per non rischiare la crisi di fame. Abbiamo pedalato con lui sullo sterrate del Finestre, con quelle sconnessioni che ti entrano dentro come una lama e quel terriccio che sembra incollare le ruote a terra. E poi abbiamo esultato con lui, abbiamo applaudito un corridore fino a l’altro giorno odiato per la sua staticità, per il suo essere un computer, per il suo essere “sub judice” a causa di una vicenda doping da chiarire. Ma il ciclismo vive di emozioni, di coraggio, di istanti, di istinto, di strada, di sudore e di fatica e quando si fa fatica insieme le percezioni della realtà cambiano, si modificano, si diventa più fragili e quindi più sensibili. Quella sensibilità che ci riporta tutti un po’ bambini, pronti a spegnere la tv un attimo dopo che la tappa si è conclusa, inforcare la propria bicicletta e andare a pedalare sulle strade che almeno una volta sono state del Giro per emulare i campioni appena visti in tv.