di Matteo Bonfanti
Sarà forse per i miei ultimi guai, ma è da un po’ di giorni che penso che un tempo era semplice e oggi è un casino perché è difficile. Ed è la prima volta che ho un po’ di nostalgia e non me ne preoccupo più di tanto. Non è molta, sono sempre io e continuo a sorridere anche al lavoro oppure quando cado. Eppure c’è, rimane, in sottofondo, ma abbastanza per sognare di fare un piccolo cambio, una settimana soltanto alla fine degli anni ottanta, quando ero piccolo, in strada, col ginocchio destro perennemente sbucciato e immancabilmente sul 9-9 al grido di Gianni: “macchine”.  Una Ritmo e una 127 e in via Boccaccio si fermava tutto: né vincitori né vinti, ma neppure il migliore in campo o il gol più bello. Nessuna frustrazione per una mezza sega come me e niente d’importante, nulla da segnalare nell’immaginaria cronaca del match. Perché eravamo già passati “a nascondino” e alla domanda di noi adolescenti turbati dalle sue mutande a fiori intraviste nell’ultima parata: se Silvia non resta sotto nella conta, verrà via con me?
Quello è il mio pallone. E ci ho giocato un sacco d’anni, da bambino sotto casa, poi nella squadra dell’oratorio, da adolescente nella società della città, da ragazzo nel club che ora si vanta di essere il migliore dei dilettanti. Vincevo, perdevo, pareggiavo ed era uguale; ero forte, mediocre, panchinaro cambiava poco, nella mia famiglia avevano altre cose da fare, si fidavano dei miei racconti e le regole di mia mamma erano giusto tre ed erano extracalcistiche: che il campo fosse vicino, che ci andassi io, a piedi, in bici, col pullmino o in motorino, insomma senza farmi accompagnare, e che fossi felice. Le volte che è venuta a vedermi, quattro per l’esattezza, ha raccolto dei fiori e dei sassi. Ancora ignora cosa faccia l’ala destra e scopre adesso che lo scrivo che c’è stata una domenica che ho tirato una testata all’arbitro.
Per i miei bambini non sarà così. Intanto saranno soli. Perché nei venti appartamenti del nostro cortile ci sono solo loro due, per di più fratelli e quindi destinati a litigare. Figli in via Santa Caterina, i bergamaschi, che sono gli unici che ci abitano, o non ne fanno o ne fanno pochini. Parecchi, invece, gli extracomunitari che però il prezzo al metro quadro del Borgo non se lo possono permettere. Quindi niente partite che non si sa come finiscono e niente nascondino a desiderare la più bellina del quartiere e a inventarsela nuda e innamorata. E manco l’oratorio perché, ti dicono, “tra i preti ci sono dei pedofili e a dottrina i piccolini in futuro potrebbero incappare nel sacerdote che più cattivo non si può, spostato da chissà quale paese, capace di rovinarteli per sempre”. Andranno a calcio come mio nipote Pietro che ha quindici anni, perennemente accompagnato da suo babbo perché il ragazzo va portato altrimenti gli altri papà ti mettono l’etichetta di genitore screanzato. Sparatemi, vi prego, quando, da ex calciatore, li tormenterò su quanto siano importanti la veronica e la finta di corpo, facendogli odiare il pallone. Oppure io e mia moglie li iscriveremo a musica con un maestro stronzo, rigoroso e strapagato che gli insegnerà le scale, il Fa diesis e il La bemolle, ma mai quello che s’impara da autodidatti, alle vacanzine in montagna col parroco e che a me l’ha insegnato un altro che non ha studiato, il mio amico Stefano: si suona davanti a un falò per dirle ti amo quando è troppo carina e non c’è verso con le parole e non è fondamentale sapere ogni accordo, ne bastano tre, quelli che arrivano dal cuore.
Ma l’estrema complessità del presente non incasina solo padri e figli. Riguarda ogni ambito, qualsiasi lavoro. Morris, laureato in veterinaria, fa il barista; Chiara, filosofa, seleziona curriculum in un’agenzia interinale. Mio papà e mia mamma hanno fatto le magistrali, finite, si sono messi a insegnare e l’anno scorso sono andati in pensione dopo quarant’anni nella scuola.
Parliamo del mio lavoro: il giornalista, mestiere che faccio da due decenni. Il mio percorso è stato semplice: ho iniziato per il giornalino del liceo, scrivere mi piaceva un sacco e ho cominciato a farlo anche per la Gazzetta di Lecco. Riempivo le pagine di Cisano, Caprino e Pontida. A Bergamo leggevano i miei pezzi e gli serviva qualcuno che conoscesse bene quei tre paesi lì, al confine con la provincia lariana. Mi hanno telefonato, ci siamo accordati sul mio compenso e ho smesso di chiedermi che fare della mia vita. Avevo 21 anni, prendevo un milione e trecentomila lire al mese e ci campavo alla grande. Quando mi hanno fatto il primo vero contratto, è stato perché dovevano sostituire Stefano alla cronaca nera. Era diventato troppo bravo per il nostro minuscolo quotidiano ed era stato richiesto dall’Eco che all’epoca “comperava” i migliori. La mia storia, quella di Serpellini, oggi, non succedono più. Non possono accadere. Noi, che siamo i piccoli, facciamo una fatica boia a stare in pari e non ci possiamo permettere il Bonfanti che ero, un giovane entusiasta, da sgrezzare, insegnandogli moltissimo, il Bugiardino è in stato di crisi, si tiene chi ha, non sta a vedere i fenomeni che ci sono in giro, e ci sono a Bergamo & Sport come a Bergamo News. Nikolas, Giordano, Fabio, Simone e Alessandra, giusto per dirne cinque, sono bravissimi, averli sempre qui, in redazione, ci farebbe fare un incredibile salto di qualità. Ma non abbiamo i soldi. Colpa dei tanti che fanno il loro sito d’informazione per passione, gratis, e tolgono copie in edicola a noi che i collaboratori li paghiamo e ci piacerebbe assai assumerli. Colpa anche di facebook: il segretario del club che, come prima cosa del giorno, scannerizza la nostra pagina uscita lunedì mattina, la mette sulla bacheca della società, lo fa perché gli è piaciuta, per dirci bravi. E non sa che ci sta tirando una mazzata economica: dieci Bergamo & Sport venduti in meno, cronaca, pagelle e interviste sono già lì, perché il centravanti dovrebbe spendere due euro per sapere se ha preso 6,5, 7 o 7,5? Torno al segretario in questione, che faccio? Dovrei denunciarlo. Ma è un amico e un lettore, non lo fa per fregarci, ma perché ci ama, è in buona fede e pensa di farci un favore aumentando la nostra visibilità. Quindi non faccio nulla. Perché è il solito casino.
Chiudo con la politica, tema che più ingarbugliato non si può. Ho sempre votato il Pd. Ho cominciato quando si chiamava Pds e il nemico era Berlusconi. Ora alle comunali il centrosinistra presenta Gori che Silvio ha reso ricco e famoso, facendolo lavorare per anni nelle televisioni Mediaset che da buon sinistroide ho smesso di guardare nel 1994 perché erano l’insostenibile e odioso conflitto d’interesse. La situazione vi sembra semplice? Intanto buona Pasqua che è l’uovo e i parenti radunati, uguale a quando ero bambino. Speriamo non si complichi.

Nella foto: tredicenne in vacanza con l’oratorio a Primolo. Io sono quello rosso di capelli