di Matteo Bonfanti
Mentre la mia vita va più o meno come quelle di chi mi circonda, né bene, ma neppure così male, leggo di Leonardo Scarpellini, morto a venticinque anni sul posto di lavoro che aveva sognato per tanti anni, un mestiere diventato fatale un attimo dopo aver firmato il suo primo contratto a tempo indeterminato, la carta che qui da noi è il pensiero costante di un’intera generazione disperata, spaventata, priva di certezze, spesso sola.
Non conoscevo personalmente Leo, un ragazzo di Verdellino, mediano cuore e polmoni del Sabbio, sorridente e divertito in ogni foto della sua squadra, eppure sento la sua vicenda vicina, mi commuove. Mi toccano nel profondo le parole di Alberto, il fratello minore, innamorato del grande. Scrive tantissime piccole cose dai colori meravigliosi, gioie quotidiane minime e straordinarie come le interminabili sfide a Fifa o le partitelle uno contro uno nel giardino di casa o il Natale passato a ridere coi nonni, gli zii e i cugini. E rivedo i miei due figli, il loro legame indissolubile, ancora più forte di quello che hanno con me o con la loro mamma. Ho addosso lo sguardo del mio piccolo, Zeno, otto anni, verso il maggiore, Vinicio, il bisogno che hanno di essere sempre insieme per capire un po’ di più di ciò che li circonda. A volte il mondo fa ridere, altre mette un pochino paura, un fratello accanto manda via il timore e manco servono le parole, basta un’occhiata complice, un abbraccio inaspettato, darsi la mano in montagna quando il sentiero sale e le gambe diventano dure. Scrivo soprattutto per Alberto, che ha perso il suo Leonardo, il suo sostegno, l’esempio da seguire, un pezzo della sua anima. Vorrei in qualche modo dargli un pochino di forza, dirgli di mandarci i suoi pensieri appena sente che buttarli giù, magari su un pezzo di carta, serve a scacciarli almeno per qualche giorno.
Si muore, è quello che ci aspetta, ma non può succedere a venticinque anni, quando c’è ancora tutto da fare, posato il primo mattone. Si muore, è la vita, ma non deve accadere sul proprio posto di lavoro per una bombola che scoppia all’improvviso, creando l’inferno. E a me viene l’angoscia, sono coinvolto, lo siamo tutti quando c’è una morte bianca. Occorre fermarsi, capire dove stiamo sbagliando e come si possa rimediare. Lo dobbiamo a Domenico, meccanico, e a Tina, commessa, i genitori di Leonardo. Perché tirar su un figlio, farlo diventare grande, forte e sano, è difficilissimo. E’ il mestiere più complicato dell’esistenza, servono coraggio, allegria, presenza e pazienza, i soldi necessari, moltissimi, le maschere giuste per rassicurare il proprio bambino anche quando in famiglia non va come si vorrebbe. Immagino la loro sensazione di fallimento, il terreno che gli è sprofondato addosso giovedì sera, e mi accorgo di scrivere anche per loro, sperando che le parole di Francesco, il migliore amico di Leo, riescano in qualche modo ad asciugargli le lacrime. Francesco parla di Leonardo, lo descrive come “un ragazzo allegro, spensierato, buono ed educato,  fantastico e senza difetti, uno di quelli che nello spogliatoio portava sempre felicità grazie al suo sorriso contagioso”. A Domenico e a Tina dico di essere fieri, che solo un bravo papà e una mamma in gamba fanno di un bambino un uomo così amato.
Racconto i miei casini, ne ho parecchi, quelli dell’Italia. Lo faccio per trovarci qualcosa di buono. In questa storia non c’è speranza, c’è solo da dire a chi sta soffrendo che ci dispiace e che gli siamo vicini.

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