di Marco Bonfanti

L’altra sera, a cena con mio figlio (quello a cui devo questa tardiva collaborazione al giornale), ci siamo messi a parlare di calcio giovanile. Io dicevo: bisogna insegnare ai ragazzi a giocare a due tocchi, prendi la palla e via. Lui diceva: la speranza e l’investimento per il futuro è costruire tanti Messi. Macchè Messi, ho ribattuto io, proprio il Barcellona è la squadra che gioca di più a due tocchi. E lui: ma cosa dici, il Barcellona fa il possesso di palla, questo sì, ma poi vanno in porta cercando  l’uno contro uno, la prodezza che è individualità e mai gruppo. E così in avanti, che io stavo sempre di più coi due tocchi e lui con Messi e pure con Pujol, e si ripetevano gli stessi concetti con altre parole, ma nessuno si smuoveva di lì. Poi io stavo diventando saccente, cosa che mi succede quando non ho più nessuna varianza di argomenti, e lui si stava offendendo. Ora, tra padre e figlio c’è sempre un equilibrio precario perché i due stanno in conflitto fin dalla nascita, e allora abbiamo piantato lì, cioè parlato d’altro, non mi ricordo più neanche di cosa, ma non era più il calcio.

Mio fratello, che ha qualche anno più di me, è un tipo caparbio, e questo fin dall’infanzia. Un giorno di tanti anni fa mi dice: non ti sembra che son capaci tutti di tenere a una squadra forte? Che era una domanda retorica e lui manco voleva una risposta ragionata. Allora ha detto: prendi una figurina per squadra e girala, togli Milan, Inter e Juve, io a caso ne pesco una e a quella squadra, qualunque sia, io ci terrò. Girò una figurina, ed era uno della Roma (che nella sfiga gli andò anche bene, perché eravamo negli anni sessanta e c’erano pure squadre che non ci sono più) e lui disse: bene tengo alla Roma, ed è romanista ancora adesso.  Mio fratello, sul calcio, ha due fondamentali convinzioni: primo che gli allenatori non servono a niente, secondo che gli schemi ( tipo 4-4-2 o  4-3-3) sono una bufala inverosimile.  Con lui  ed altri due amici andiamo a vedere il Lecco, che è la squadra della nostra città. Quando le squadre si schierano io gli faccio vedere lo schema, che spesso si vede, ma dopo un quarto d’ora che sono tutti mischiati,  lui dice: e lo schema adesso? E io so che è caparbio e dico va, bene, non si vede più. Dopo la partita, se siamo in trasferta, mentre si torna a casa, si discute della partita stessa. Mio fratello dice sempre che bisogna tenere la palla a terra. Io, che certe volte mi do arie da intellettuale, dico che manca un’idea di verticalizzazione. Carlo magari che non c’è nessuno che spinge sulla fascia, e Sergio che non c’è mai nessuno che prova l’uno contro uno (e ci risiamo).  Insomma sfoderiamo tutti i concetti appresi dal Bergomi Caressa, che sono i nostri filosofi di riferimento. Poi non veniamo mai a una, ma tanto lo sappiamo e credo che venirne a una non ci interessa neanche.

Una volta mi hanno portato a vedere un’Atalanta-Roma, che era un po’ di anni fa. L’allenatore della Roma era Spalletti e, appena è entrato, tutti si sono messi a insultarlo. Io ci sono rimasto malissimo, ma non era per via degli insulti, ma per via che mi chiedevo: ma tutta questa gente non sa neanche chi sia il signor Spalletti, e allora perché lo insulta, per insultare qualcuno non si dovrebbe almeno conoscerlo? Così ci son rimasto malissimo anche quando, l’altro giorno, i cretini hanno fatto buu a Constant del Milan. Perché anche qui, manco sanno chi sia, ma lo insultano non per quello che è, ma per quello che rappresenta.  Ma io nel calcio sono. Sono parole, affetti, ricordi, sentimenti, bevute, sguardi e desideri.  I cretini che fanno buu questo mi negano. Ma senza questo non c’è calcio. Solo un lungo silenzio, senza più festa.