di Simone Fornoni
Brasil, Brasil… Accoppiato al ritmo di samba del carnevale a pelo d’erba, il fruscio di bigliettoni del business. 32 squadre, con i flussi turistici conseguenti. 3 milioni 300 mila biglietti. 14 miliardi di dollari USA spesi per 12 stadi, trasporti e sicurezza. Un’edizione dai grandi numeri, la numero 20 del campionato del mondo di calcio. Ma lontano dagli occhi di chi ingrassa l’indotto per godersi un posto in prima fila, nella patria del Futebol precarietà e miseria sfondano la coltre della rappresentazione farlocca e imbellettata della realtà.
Se i circensi dal 12 giugno al 13 luglio non mancheranno, il pane è a malapena una conquista delle recenti riforme del welfare. Specie nelle favelas, conglomerati di manodopera e mercato di sbocco della criminalità: un universo parallelo ed estraneo allo sviluppo economico da re del Brics. Il secondo presidente “operaio” di fila, Dilma Rousseff, non ha invertito la rotta, salvo bloccare per l’occasione la stangata sugli alcolici. La cenere che cova risentimento sotto la brace aveva già mandato potenti segnali di fumo durante la Confederations Cup dell’anno scorso, e le pur ridimensionate proteste di piazza – contro aumenti tariffari, sprechi e corruzione – sono focolai a rischio di esplosione. La CBF, nel frattempo, ha guarnito con crema e glassa la torta sfornata dalla Fifa: è la World Cup più costosa di sempre, davanti a Germania 2006 (seimila milioni); per Usa ’94 si spesero “solo” 30 milioncini tondi, 466 volte di meno. Poco importa, poi, se parte del tetto dello scalo di Manaus crolla per due dita in più di pioggia amazzonica. L’ex capo assoluto – dal marzo 2012 è in sella José Maria Marin – del calcio che spende e spande alla faccia di un sistema sanitario da terzo mondo, Ricardo Teixeira, prima di mollare l’osso anche per i reiterati sospetti di corruzione e tangenti, aveva sprizzato ottimismo: «I Mondiali significano moderne infrastrutture e promuoveranno la trasformazione sociale». A riportare tutti coi piedi per terra ci ha pensato recentemente lo scrittore Paulo Coelho: «Il contesto è molto teso, è tornata la violenza. Il Paese vuole mostrare un volto che non corrisponde alla verità».
Mentre il logo ufficiale Inspiration (“una mano che si copre il volto per la vergogna”, per il grafico Alexandre Wollner), il pallone Brazuca e la mascotte-armadillo Fuleco (dalla combinazione di “futebol” ed “ecologia”) attendono che il sipario si alzi, lo scollamento tra classe dirigente e popolo della strada c’è e si vede. I disastri delle riforme imposte dal Fondo Monetario Internazionale alla presidenza Cardoso (1995), tra privatizzazioni delle public utility, rigore finanziario e indebitamento, sono stati attenuati dalla “bolsa familia” varata nel 2002 da Lula (una social card per garantire il vitto anche ai senza reddito) e dagli investimenti esteri, attratti da idrocarburi e altre commodities. Ma l’equilibrismo tra grandi interessi e “sem terra” è sul filo di lana della stagnazione (il Brasile cresceva del 7,5% annuo, ora siamo sull’1%), cominciata nel 2011 sulla scorta di un Real troppo forte che penalizza le esportazioni, della concorrenza cinese sui beni di largo consumo e dal protezionismo che svia i capitali sulle rotte del Pacifico. Il Pil stimato è 2.684 miliardi di dollari (settimo al mondo, deficit al 2%), quello pro capite 13.460; la polarizzazione della ricchezza è la vera miccia del malcontento. E lo sbandierato 5% di disoccupati (metà del 2006) sembra propaganda pura nonostante l’apporto del lavoro minorile, sfruttato per il 56% dal settore primario. Al di sotto dei piedistalli eretti agli dei dello sport, insomma, tra aroma di caffè, attività estrattive e industrie (che impiegano solo un quinto degli addetti), c’è un terreno minato che può far saltare tutto. Anche se resterà l’illusione di poter nascondere le vergogne dentro la sfera di cuoio.