di Carlo K. Capitanio
Se devo pensare a qual è l’Italia migliore che io abbia visto giocare rispondo subito d’istinto: 1982.
Perché fu la protagonista di una cavalcata esaltante e perché sono i miei primi ricordi calcistici: Isola D’Elba, campeggio perfettamente diviso fra italiani e tedeschi, 2 televisioni separate per vedere la finale, un tricolore fatto con i sacchetti di plastica e Rossi, Tardelli e Altobelli e quel grido mundial di Nando Martellini.
Però questa risposta è frutto dell’affetto,  della pipa di Bearzot, delle partite a carte Zoff-Pertini contro Causio e il CT e della corsa senza freno di Tardelli, una memoria mediata dalla nostalgia.
Quell’Italia era tutto sommato frutto della tradizione calcistica italiana, con un libero dietro staccato dai due marcatori. I gol di Pablito Rossi spinsero gli Azzurri fino alla vittoria: il girone di qualificazione fu un mezzo disastro, con 3 pareggi contro Polonia, Camerun e Perù e passaggio del turno per il rotto della cuffia. Da lì, la narrazione epica: seconda fase a gruppi vinta con la tripletta di Rossi al Brasile, semifinale in cui lo stesso Pablito schianta la Polonia e finale con i tedeschi regolati dagli uomini di Bearzot.
Campioni del mondo, e per un bambino di quasi 4 anni un’emozione nuova, indescrivibile: il sentirsi parte di qualcosa e il sentire qualcosa di comune. Negli anni a seguire quella stessa emozione in altri contesti, meno patriottardi, ma comunque quel turbinio di sacchetti di plastica, sfottò ai tedeschi e Toto Cotugno alla radio mi fa optare per l’Italia di Bearzot come la migliore che ho mai visto.
1986, Città Del Messico. A nulla sono serviti i gol di Altobelli nel girone, Monsieur Platini e Stopyra eliminano gli Azzurri agli ottavi di finale, io guardo la partita in una pizzeria sul Gargano, dispiaciuto ma tutto sommato distaccato.
Sulla panchina siede ancora Bearzot, confermato dopo la vittoria di quattro anni prima. Con lui anche un po’ di reduci della Campagna di Spagna, fra i quali un Paolo Rossi sul viale del tramonto.
Una nazionale non indimenticabile, che ha il pregio di lanciare alcuni “giovani” come Vialli e Baresi.
Ciclo finito per gli eroi di Madrid, tanti saluti e 4 anni dopo si riparte con Azeglio Vicini in panchina e una generazione di nuovi talenti a fianco degli ormai scafati Baresi, Bergomi, Ancelotti: largo al Divin Codino, a Mancini, Donadoni.
Sono le “Notti Magiche”, l’Italia impazzisce e una colata di cemento la investe per costruire nuovi stadi, ristrutturare quelli vecchi e edificare sovrastrutture inutili per fare contenti gli amici degli amici, io sono ancora in Puglia, in pochi giorni l’idolo diventa Totò Schillaci, siciliano che esplode alla Juve dopo tanta gavetta in serie B.
Passiamo il girone senza difficoltà, e l’entusiasmo sale. Regoliamo nell’ordine Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia.
Ottavi e Quarti di finale vedono gli Azzurri eliminare rispettivamente l’Uruguay di Francescoli e una sorprendente Irlanda (con davanti lui, il mio idolo: Tony Cascarino).
Ci tocca l’Argentina in semifinale, si gioca a Napoli e il tifo di casa fischia l’inno italiano, sostenendo l’idolo del San Paolo Maradona, campione in Messico 4 anni prima e più forte giocatore sulla faccia della Terra da qualche anno.
Segna Schillaci e pareggia Il Figlio Del Vento, Claudio Paul Caniggia, uccellando di testa un Walter Zenga non impeccabile nell’uscita: ecco, quell’uscita scellerata mi resterà talmente impressa da rivederla mentalmente ogni volta che viene nominata quella partita.
Si va ai supplementari e poi ai rigori, gli argentini segnano tutti mentre Donadoni e Serena sbagliano e in finale ci vanno gli argentini, che verranno poi sconfitti da un rigore di Brehme che consegna la coppa alla Germania Ovest.
Confesso di aver tifato Germania, nonostante tutto, quella sera.
A quest’Italia ci sono affezionato, le dico “grazie lo stesso, è stato bello”: tanti talenti e la meraviglia di Schillaci che dal quasi nulla diventa il capocannoniere dei mondiali.
Nel 1994 si gioca negli States, e la sbornia zonista ha investito anche la FIGC: in panchina siede Arrigo Sacchi, che aveva stupito tutti con un Milan schierato con un rigido 4-4-2 e votato ai dettami della zona e del gioco di squadra più che al gesto tecnico individuale.
Una lista dei convocati fatta su misura per il credo del mister di Fusignano e un girone passato con il brivido, perdendo addirittura dall’Irlanda e ringraziando il maggior numero di gol segnati rispetto alla Norvegia.
Da lì però si inizia a galoppare: fuori la Nigeria agli ottavi dopo i supplementari grazie a una doppietta di Roberto Baggio, fuori la Spagna ai quarti con gol di Dinone Baggio (uno dei califfi di Sacchi), pareggio di Caminero e gol vincente del Baggio buono, Roberto.
In mezzo, la folle gomitata di Tassotti a Luis Enrique.
In semifinale incontriamo una soprendente Bulgaria, guidata da un ispiratissimo Stoichkov, ma Roberto Baggio con una doppietta spazza via anche i bulgari, che finiranno quarti in prendendo 4 gol dalla Svezia di Kenneth Andersson nella finalina 3°-4° posto.
La finale è drammatica, le due squadre arrivano ai rigori e gli errori di Massaro, Baresi e R.Baggio fanno sollevare la coppa ai Verdeoro che davanti vantano il duo Bebeto – Romario.
Dopo gli stenti iniziali nessuno ci contava, possiamo dirlo, ma non è una delle nazionali alle quali sono affezionato: ho sempre detestato Sacchi e il suo gioco, il suo aziendalismo e i suoi dettami tattici, l’arroganza del Milan di Berlusconi.
Minori fortune per la nazionale l’anno successivo: in panchina siede Cesare Maldini, padre di Paolo. Siamo in Francia e il girone di qualificazione si rivela tutto sommato agevole: pareggino con il Cile all’esordio, vittorie con Camerun e Austria.
Davanti giocano Vieri e Roberto Baggio, siamo negli anni in cui il calcio italiano spende cifre folli e la Nazionale è onesta come il suo allenatore: forse non così talentuosa (in Francia ci va anche Sandro Cois, per dire) ma tutto sommato con un senso, e Bobo Vieri si mangia la Norvegia negli ottavi e ci porta ai quarti, dove incappiamo nei padroni di casa.
A Saint Denis la partita si conclude sullo 0-0, ci toccano ancora supplementari e rigori.
Io soffro guardando il megaschermo allestito a S.Agostino.
Di Biagio sbaglia e nello Stivale si consuma lo psicodramma di perdere ai rigori contro gli odiati cugini francesi, che andranno a vincere poi la Coppa Del Mondo per la prima volta, sconfiggendo in finale il Brasile di Ronaldo (che in quegli anni era una delle cose più mostruose che io abbia mai visto su un campo di calcio). Terza, a sorpresa, la Croazia.
Onore al merito di Aimé Jacquet, capace di vincere un mondiale schierando Guivarc’h centroavanti titolare in finale.
Si va in Asia nel 2002: mondiali organizzati a metà fra Corea del Sud e Giappone, in panchina quella vecchia volpe di Giovanni Trapattoni, in campo non c’è più Roberto Baggio ma ci sono Vieri, Del Piero, Totti (leader e stella della squadra).
Il girone di qualificazione va così così: doppietta di Vieri per battere l’Ecuador, perdiamo con la Croazia con gol decisivo del perugino Rapaic (giocatore tanto incline al sovrappeso quanto talentuoso), pareggino col Messico e ottavi di finale raggiunti, dove incontriamo i padroni di casa della Corea del Sud ma soprattutto l’arbitro ecuadoriano Byron Moreno che espelle Totti per una presunta simulazione, annulla un gol regolare a Tommasi e avvalla il comportamento violento e intimidatorio dei coreani, che passeranno il turno grazie al golden goal del perugino Ahn.
L’opinione pubblica italiana è scatenata, fra complottisti e teorici della geopolitica calcistica.
Moreno qualche anno dopo fu sospeso per partite truccate nel campionato ecuadoriano, mentre nel 2003 fu il protagonista di una trasmissione RAI, dove i lungimiranti dirigenti della rete televisiva spesero decine di migliaia di dollari per farlo balllare con Carmen Russo alla prima e unica puntata del programma “Stupido Hotel”.
Forse alla fine aveva ragione lui, fatto sta che fu il Brasile di Ronaldo a sollevare la Quinta, battendo in finale la Germania.
Per i fortunati coreani un 4° posto dietro la Turchia, per la stampa italiana tanti alibi dati dall’arbitraggio per una nazionale di sicuro non impeccabile.
2006, Germania.
Stadi bellissimi, altro che le ormai fatiscenti strutture di Italia ’90.
In panchina Marcello Lippi, davanti il dualismo Del Piero – Totti che tiene banco.
Ancora l’Italia a livello di club conta qualcosa, e in campo c’è una squadra con un senso: non eccezionale ma bene organizzata, dove anche Iaquinta , Oddo e Zaccardo trovano una collocazione senza apparire i fratelli sfigati.
Il girone ci vede assegnare ancora Stati Uniti e Repubblica Ceca, oltre che il Ghana: vinciamo con gli africani, pareggiamo con gli Yankees e ne mettiamo 2 ai cechi e passiamo di slancio il turno.
Dopo la figuraccia in Asia di quattro anni prima un po’ di scetticismo c’è, ma inizia a imperversare il “Po po po po po po po” che per un’estate ci tormenterà sia nei passaggi radio che nei cori sghembi degli ubriachi.
L’accoppiamento degli ottavi e dei quarti è tutto sommato benevolo: prima l’Australia e poi l’Ucraina soccombono sotto i colpi di Totti per i Socceroos e di Toni (2 volte) e Zambrotta per gli ex sovietici.
La semifinale è di quelle da brividi: a Dortmund affrontiamo i padroni di casa e chi vince ha la possibilità di fregiarsi del 4° titolo mondiale.
La partita è nervosa e si arriva stanchi al 90°.
Tempi supplementari, come 4 anni prima in Corea, ma questa volta non c’è il golden goal e Grosso e Del Piero, allo scadere del tempo, portano la squadra di Lippi in finale.
Ci tocca la Francia di Zidane: a Berlino prima segna su rigore proprio Zizou e poi pareggia Materazzi.
Nel frattempo la testata del primo al secondo e il mistero di cosa si siano mai detti.
Tutto succede nei primi 20 minuti, poi più nulla: si arriva ai rigori, dove Grosso è decisivo e l’Italia è campione del mondo per la quarta volta.
Io guardo la partita nella stessa posizione scaramantica, in piedi, di tutte le partite di quel mondiale, quasi contento di sentire risuonare quel “po po po” nazionalpopolare e caciarone, di sicuro meglio delle vuvuzela di quattro anni dopo, in Sud Africa.
Diciamolo: dell’ultimo mondiale possiamo salvare la canzone ufficiale, il “Waka Waka” che è molto meglio dell’inno di quest’anno, senza ritornello e senza mordente.
Poi, per il resto, il buio: l’Italia si trova un girone tutto sommato abbordabile, è campione del mondo e sulla panchina siede il nocchiero delle notte berlinesi.
Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia sulla carta sono avversari alla portata degli azzurri, che riescono a pareggiare con i sudamericani, impattare con i kiwi (con un rigore di Iaquinta) e perdere in maniera indecorosa contro gli esordienti slovacchi, 3 a 2 e tutti a casa.
La Coppa la solleveranno per la prima volta gli spagnoli, che sconfiggono l’Olanda di Snejider e Robben con un gol in extremis di Iniesta; terzi i tedeschi che regolano per 3 a 2 il sorprendente Uruguay, per un Mondiale assolutamente da dimenticare per i colori azzurri.