di Matteo Bonfanti
Sugli ennesimi casini combinati dagli ultrà nerazzurri ho letto un bellissimo articolo sull’Eco di Bergamo a firma di Roberto Belingheri. E’ un pezzo da leggere perché è intelligente e coraggioso. E mi sono detto lo faccio anch’io, che ci vuole? Ne scrivo una copia, ovviamente con parole diverse, più auliche, aggiungendoci qualcosa in fondo a caso: una frase del Bocia o un paio di parolacce o tre imprecazioni o i ringraziamenti alla mia famiglia. Mi sono messo anche. Con impegno. Ci ho buttato un pomeriggio. Ero sempre alla terza riga. Non andavo avanti, non andavo indietro, ogni tanto telefonavo a mia mamma. Tentavo di farmi rassicurare: “Ma per te ho una bella testa? Dico: ci arrivo alle cose?”. “Sì, Matteo. A tuo modo”: mi rispondeva. Poi, alla sesta chiamata, mia madre ha spento il cellulare. E io mi sono messo a fare un test sul quoziente intellettivo, di quelli che si trovano su internet. Deluso dal misero risultato, che non rivelerò mai, manco dovessero torturarmi (ma chi?), mi sono messo a riflettere sulla curva atalantina usando la mia testa. Che è balorda e che la soluzione del problema non la intravede nel campo della razionalità, ma in quello opposto, in una lunga esperienza avuta anni fa con i disabili mentali.
Nel 2001 ho fatto il servizio civile in una cooperativa che ospitava una quarantina di matti. L’idea di chi la gestiva, tutt’ora in voga oggi in Europa, è quella di portare gli ospiti il più vicino possibile alla normalità, alla famosa linea che divide chi ci sta dentro, da chi, invece, sta fuori di zucca. Un esempio: Oscar, il nome è volutamente inventato, godeva assai nel prendere una discreta rincorsa per andare a tirare una serie di incredibili testate contro il muro. Bene, gli educatori gli spiegavano che non era cosa, che non si fa, limitandolo per cercare di avvicinarlo a quello che fanno gli uomini come me che non passano il proprio tempo libero a spaccarsi il cranio a incornate. E io rompevo i maroni. Perché sostenevo che tanto Oscar non sarebbe mai uscito da lì, quindi tanto valeva si divertisse come voleva e che quel luogo diventasse il suo paese dei balocchi. A noi il compito che non si ammazzasse. Non quello di farlo sembrare sano. Quindi ok alle salutari testate, ma in un appartamento con ogni parete protetta da uno spesso strato di gommapiuma.
Io, sugli ultrà, la penso così. La molla non è il business della Festa della Dea. E’ più semplice, è la follia. Che prende la maggior parte di noi quando c’è in ballo la partita della propria squadra del cuore. Medici conosciuti negli ospedali più importanti del pianeta, giornalisti in gamba, politici appassionati, genitori premurosi, ingegneri che costruiscono ponti in America, imprenditori che hanno messo in piedi dei veri e propri imperi, a tutti parte l’embolo. Avessero l’arbitro sotto mano dopo la sconfitta? Lo strangolerebbero. Gli capitasse di trovarsi al bar col centravanti avversario che ha segnato una doppietta? Lo riempirebbero di calci, sputi e pugni. Poi non lo fanno, ma ci pensano. Ed è vero che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, ma comunque, storpiando a memoria una frase di Benedetto Croce, vien da dire che in Italia non possiamo non dirci ultras (un tempo eravamo cristiani).
Va così. E poi c’è che si torna bambini. Sono stato in curva, ho pure tirato un sampietrino all’indirizzo di un poliziotto (mi è venuto fuori un lancio sfigato, lontanissimo dall’obiettivo), c’è che si passa una domenica alla cazzo, strapiacevole. Intanto si va coi soci di sempre, poi si sbevazza a stomaco vuoto e, con le principali parti del corpo che galleggiano nel vino rosso, si finisce immancabilmente a giocare a guardia e ladri o a nascondino, credo i due passatempi più emozionanti che esistano e che potrebbero addirittura finire tra le discipline delle prossime olimpiadi.
Insomma gli ultrà ci sono. E non è che se gli si fa un corso per gentleman diventano d’improvviso il tenero pubblico del rugby. Non cambiano, come i matti. E allora bisogna organizzarsi perché non si facciano male male tra di loro (si menino pure con la tifoseria opposta, ma coi guantoni che attutiscono e senza esagerare) o feriscano per sbaglio qualcuno che non c’entra coi loro giochi domenicali. E qui il compito è di Percassi. Stadio nuovo di proprietà lontanissimo dalle case, magari in montagna, a Spiazzi di Gromo o in Val di Scalve, settori ultras blindati con filo spinato di quelli che quando li tocchi ti viene la scossa. In curva ci si arriva solo partendo la mattina presto, grazie a un mega tunnel sotterraneo di cinque chilometri zeppo di fontanelle che vanno a vino e birra rossa e di finti teschi che mettono i brividini e preparano all’atmosfera del match. E poi la grande innovazione per il post partita: in regalo con l’abbonamento le utilissime armi giocattolo per la guerra che si farà in un campo di gonfiabili apposito, dotato di un piccolo e confortevole ospedale da campo con sette ambulanze, tre dottori qualificati e i nove migliori barellieri attualmente sulla piazza.
Ecco, quindi, il kit in dono con la tessera, che va fatta senza se e senza ma, per avere un posto in prima fila nella nuova Pisani. Pur inoffensivo, il materiale è davvero fighissimo: due fucili di precisione di quelli che sparano pallini d’inchiostro, morbide manette di pelo colorato fondamentali se si fa un prigioniero tra i colleghi romanisti o juventini e si vuole portarselo a casa in ostaggio, mazze e spade di gomma riempite d’aria che costano appena due euro dai cinesi. Incentivi per evitare i temibili cani sciolti: se cento ultrà fanno un gruppo, gli si regala un carrarmato nerazzurro di spugna che lancia fialette puzzolenti dentro finte bombe d’acqua anche a chilometri di distanza.
Ci sarà da divertirsi. Io mi abbono.

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