di Matteo Bonfanti
Alle volte le sfighe diventano delle incredibili fortune,  momenti che riconciliano con Bergamo e i suoi abitanti, alcuni davvero squisiti. Uno di questi si chiama Mario Turani e di mestiere fa il medico. Ed è grazie a lui che oggi sono in piedi dopo il mio ennesimo infortunio calcistico. Martedì sera, campo di Orio al Serio, faccio il trequartista dietro una coppia incredibile formata dal bomber più forte di tutti i tempi, Francesco Fuji, e dal Genio, il Cavani di noialtri. Sono a centrocampo e tento l’elastico alla Ronaldinho, mi riesce, ma appoggio malissimo la caviglia del mio piede sinistro, sentendo un dolore lancinante. Potrei tranquillamente mettere fine alla mia disgraziata partita, ma sotto sotto sono un discreto competitivo. Così, pur mezzo zoppo, continuo a giocare per non lasciare i compagni in inferiorità numerica contro la fortissima banda capitanata da uno scatenato Gigi Foppa. Perdiamo, torno a casa e ho un piede che è talmente gonfio da sembrare la panza di un bambino africano che non mangia da mesi.
Potrei andare all’ospedale, al pronto soccorso, fermarmi lì tutta notte, con due libroni da leggere, aspettando il mio turno. A occhio e croce sarò un codice giallo, attesa prevista almeno cinque ore. All’improvviso però ho un’intuizione: chiamo il dottor Turani, il medico responsabile di tre nazionali. Scrive per noi, magari mi fa il favore di visitarmi.
E da qui in poi si apre un’altra vicenda: l’inizio di un’amicizia tra me, che sono una persona parecchio curiosa, e Turani, che è un uomo di una cultura immensa. Il dottore del calcio mi ha rimesso in piedi dopo due visite, un paio di magneti e una fasciatura rigida che profuma di menta. E il breve percorso della mia (miracolosa) guarigione si è trasformato in due mattinate fantastiche, a parlare con quello che dovrebbe essere ogni medico: qualcuno in grado di rassicurarci e di sorriderci, nel momento della malattia, il più difficile. Se questo credo sia il compito della medicina, sono certo che il dovere del giornalismo è far conoscere ai propri lettori chi vale. Così mi sono preso un’ora per intervistare Turani.
Mario, partiamo dalla tua disponibilità, immensa, che io ho provato di persona. “Spesso vengono qui a farsi visitare delle vecchine in perfetta salute. Arrivano perché hanno bisogno di parlare delle loro paure. Il mio lavoro è anche quello di ascoltarle, consigliandole, magari, un bel bicchiere di vino dopo cena che spesso è il miglior rimedio contro l’ipocondria. Aldilà di questo, credo che alcuni medici abbiano smarrito l’idea centrale della medicina. Non parlano con i propri pazienti e, in silenzio, gli prescrivono dei medicinali da prendere. E’ un errore perché il percorso terapeutico è un viaggio che dottore e paziente devono fare insieme, parlandosi, confrontandosi. Proprio perché ogni cura è una strada verso la conoscenza”.
Che bambino eri? “Molto simile all’uomo che sono poi diventato. Dormo poco, sono sempre in movimento. Da piccolo ero anche un po’ indisciplinato. A scuola, soprattutto, dicevano che ero il tipico studente che avrebbe potuto dare di più. E spesso mi davano delle note perché ero parecchio agitato. A casa ero più o meno uguale, mia mamma si girava e io non c’ero più. Uscivo e rientravo all’ora di cena”.
Pensavi già alla medicina? “No, ci sono arrivato strada facendo. Mio papà faceva il vigile urbano, mia mamma la casalinga, eravamo una famiglia modesta. Non ci potevamo lamentare, ma i soldi per farmi studiare non c’erano. Così, fin da giovanissimo, mi sono messo a lavorare. Ho fatto il gelataio, il pasticcere, l’operaio al mercato della frutta, il barista. Di sera facevo le serali. Sono diventato odontotecnico, ma, studiare, mi è sempre piaciuto. Ho continuato, mi sono iscritto a medicina ed ora eccomi qui. Ma non si finisce mai di imparare. E, ancora, leggo tantissimo”.
Sei uno sportivo? “Lo ero da ragazzo. Prima nella Pallavolo Loreto, poi nel calcio, sempre a Loreto. Ero anche forte, i miei limiti erano che ero un ragazzo indisciplinato e che non mi sapevo vendere. A scuola, invece, facevo atletica ed ho vinto anche qualche medaglia ai Giochi della Gioventù”.
Torniamo al presente: hai pazienti a Bergamo, Lecco, Milano, Firenze e Roma. Sarai sempre in viaggio. “Sì, ho una vita molto dinamica e ammetto che mi piace molto. Amo guidare sia l’auto che la moto. Metto il casco e mi vengono tantissime idee. E’ una piccola stanza, un laboratorio per pensare. Se mi divido tra tutte queste città è anche perché sono una persona che dorme poco, due, tre ore al giorno, da sempre, e, proprio per questo, ho più tempo degli altri”.
Non sogni mai di mollare tutto e di scappare in Polinesia? “Ogni tanto, come capita a chiunque. Ma sono bergamasco, un uomo programmato per lavorare. E la medicina, in ogni sua forma, mi piace, mi affascina. E quando si fa un mestiere interessante, la fatica non si fa sentire”.
Mario Turani, non il medico, ma l’uomo, e l’amore. “Sono perennemente innamorato. Di quello che faccio, di quello che leggo, di quello che scrivo, delle persone con cui vengo a contatto. L’amore produce in noi un’energia più forte di quella atomica. Per amore si parte di sera per Roma per tornare a Bergamo la mattina. Cose così non si fanno per l’amicizia o per i soldi. Solo l’amore ci muove tanto. E oggi ce n’è poco. E credo che sia un problema”.
Restiamo in tema: il tuo rapporto con l’altra metà del cielo. “Straordinario con due fasce d’età: quella che va da 0 a 7 anni e poi con le ultrà ottantenni. Piaccio molto come medico sia alle bambine che alle vecchiette”.
Da un tema leggero a uno pesantissimo: l’Italia e la sua crisi economica infinita. “Non vedo un futuro radioso per il nostro Paese perché non ho grande stima nei confronti dei nostri politici. Qui non s’investe. Non si fa ricerca, si taglia ogni ambito della cultura. E in questo modo facciamo fuggire i nostri giovani migliori e credo che sarà così per altri vent’anni. Bisognerebbe, invece, muoversi in direzione contraria, incentivando i nostri ragazzi a restare qui, aiutandoli anche economicamente quando hanno dei progetti da realizzare”.
Se non avessi fatto il medico… “Non lo so. Posso dire che mi piace cantare. E’ la mia grande passione ed ho dato alle stampe anche un cd di musica leggera. Tutte canzoni mie e mi è anche capitato di esibirmi in televisione. Mi sono divertito tantissimo”.
Sei uno dei medici sportivi più famosi in Italia. Quali sono gli atleti che ti hanno impressionato di più? “Sono due: Razzoli e Bolt. Ho avuto la possibilità di conoscerli molto bene e sono, oltre che due grandi campioni, due ragazzi speciali: solari, genuini, cordiali e alla mano. Con Usain ci siamo scritti per un po’. Ci piaceva raccontarci le nostre avventure, poi ci siamo un po’ persi, entrambi per via dei troppi impegni”.
Il doping. “Quello che dico agli atleti è che sia il Coni che la Wada prima o poi ti beccano con le mani nel sacco. E’ come giocare a guardia e ladri da bambini. Quindi alterare le proprie prestazioni con prodotti dopanti è un errore, è il modo più veloce per rovinarsi la carriera. Detto questo, sono uno dei medici italiani antidoping e devo dire che il problema c’è, nel ciclismo, ma anche nel calcio”.
Il tuo impegno con le nazionali della LND. “Piacevole, ma anche molto impegnativo. Seguo tre squadre azzurre, l’under 17, l’under 18 e la selezione di Serie D. Tavecchio mi ha dato molto spazio e in questi anni abbiamo dato vita a progetti molto interessanti, come l’unità di pronto intervento, con l’utilizzo in campo dei defibrillatori. Con le formazioni della LND siamo spesso in giro. Recentemente abbiamo partecipato a due tornei internazionali molto seguiti, uno in Albania, l’altro ad Assisi. C’era la nazionale giovanile cinese. Si sente l’influsso di Lippi”.
Grazie ai magneti in tre giorni mi hai rimesso in piedi. Dove sei andato a pescarli? “E’ una terapia che faccio da una decina d’anni ed è il frutto di uno dei miei tanti viaggi. Sono un uomo curioso, nella medicina ho sempre vagato in lungo e in largo, interessandomi anche di omeopatia e di osteopatia. Mi piace scoprire nuove cose in tanti altri ambiti come l’antropologia o l’astrofisica, nonostante l’impressione sia sempre quella: più studio e più mi sembra di non sapere. Ma è così per ogni campo della scienza, pensiamo all’atomo, in greco significa “che non si taglia”. Oggi sappiamo che dentro l’atomo c’è un intero universo e il futuro della medicina è arrivare a conoscere ogni sua particella”.
Con Mario ci sarebbe da parlare per due giorni interi, saltandone le notti. Ma io ho un impegno, appena fuori dal suo studio ci sono Vinicio e Zeno, i miei due figli, a cui ho promesso di andare al parco. Con loro giocherò a pallone, grazie al dottor Turani.