10 maggio 1987, la prima storica volta per il Napoli. E a distanza di 34 anni, ricorre la prima maledetta volta senza Diego Armando Maradona. Altri tempi, altro calcio, con sole 16 squadre ricomprese in Serie A e un titolo di capocannoniere finito appannaggio del fuoriclasse argentino, con “sole” 10 reti. Una ricorrenza da onorare doppiamente, in funzione del doblete che caratterizzò sia il percorso del Napoli che quello del suo più fiero trascinatore. Gli azzurri abbinarono, infatti, al primo titolo nazionale la Coppa Italia, conquistata nella doppia finale a spese dell’Atalanta di Nedo Sonetti. Maradona, dal canto suo, festeggiò con il primo Scudetto partenopeo il Mondiale messicano vinto nell’anno precedente, nell’edizione ancora oggi ricordata per la Mano de Dios e per il gol più bello della storia, che lo proiettò nell’Olimpo del calcio. Con un’Inghilterra destinata a ricordarsi lungamente quei disgraziati quarti di finale, il grande merito del campione dell’Albiceleste fu quello di non adagiarsi sugli allori, portando quella fame e quella determinazione anche in sede di club, al servizio di un Napoli intento a scacciare ogni tabù e ogni complesso di inferiorità, rispetto alla Juventus della famiglia Agnelli; naturalmente la regina indiscussa, in tema di Tricolore. Dall’avvento de El Pibe de Oro, nell’estate 1984, un piazzamento a metà classifica e un terzo posto lasciavano presagire almeno la crescita, in consistenza e autorevolezza, di un progetto tecnico che non poteva prescindere da una trazione più di tipo operaio. Nella stagione ’86-’87, quella della consacrazione e del bersaglio grosso, c’era il campionissimo ma non mancavano nemmeno i profili più gregari, ben personificati da una guida tecnica, quella rappresentata da Ottavio Bianchi, che la stessa città di Bergamo imparò successivamente ad apprezzare. Personaggio ruvido, tutt’altro che incline ai compromessi, schivo persino dinanzi alle telecamere, Bianchi trasmise quell’umiltà e quella diffidenza di fondo a un intero gruppo, trascinato sul campo dalle meraviglie che Maradona regalò e si regalò. Per il campione argentino, non solo il titolo di capocannoniere, ma anche lo status di uomo-squadra, così ben raccontato, negli anni a venire, dagli altri artefici di quella grande impresa. Da una parte i personaggi più celebrati, come gli attaccanti Giordano e Carnevale, gli sbocchi ideali per la classe e la creatività del diez argentino, oltre a quella sorta di alter-ego che fu Salvatore Bagni: il pilastro del centrocampo, tutto corsa e temperamento, abile ad apporre quel quid, in termini di legna e quantità, insieme a “Nando” De Napoli. Ma non solo, perché in porta giganteggiò Garella, l’uomo che parava solo con i piedi, mentre in difesa si distinse l’allora giovanissimo Ciro Ferrara, poi lesto ad accaparrarsi la propria notorietà in maglia juventina, al di là del legame, più forte di tutto e tutti, quale quello innescatosi con Maradona. E poi un veterano come Bruscolotti, ancora oggi grande esperto delle vicende calcistiche all’ombra del Vesuvio; Ferrario, protagonista di un solo gol, ma pesantissimo, proprio sul campo della Vecchia Signora; quel “Ciccio” Romano, arrivato a ottobre, nell’unica finestra di mercato di riparazione allora garantita, da una Triestina impegnata in Serie B. Serviva soltanto un regista, dotato di buoni tocchi e visione di gioco, e quel regista atto a completare il mosaico perfetto arrivò. Fatto man bassa del platonico titolo di campione d’inverno, il Napoli dell’Ingegner Ferlaino resistette al ritorno delle rivali più accreditate, su tutte Juve e Inter, e il doppio successo sui bianconeri dell’ex Rino Marchesi finì di fatto per fare la differenza. Il 10 maggio 1987, il pari al “San Paolo” con la Fiorentina di Antognoni e Roberto Baggio sancì il trionfo, con una festa collettiva che proseguì nelle settimane e nei mesi successivi. A stretto giro, il doblete fu manifesto, con il doppio successo nella finale di Coppa Italia, ai danni di una Dea che poteva contare sui vari Stromberg, Prandelli, Magrin, Pasciullo e Bonacina. Poi le tinte azzurre si ingrigirono, sotto i colpi dei sospetti, degli intrighi e degli scandali. La cocaina, i rapporti con la Camorra, alcune illazioni legate alla compravendita di partite determinanti, ebbero il sopravvento, ma nel racconto postumo, fatto anche di campanili e di una cronica scaramuccia tra Nord e Sud Italia – come peraltro ben racconta la stessa querelle legata a Mazzoleni e al comportamento della sala Var in Benevento-Cagliari – un dato non può essere messo in discussione. Un ciclo, come quello maradoniano, fatto anche di un secondo Scudetto, quello della stagione antecedente a Italia ’90, di una Coppa Uefa e di una Supercoppa Italiana, resterà, per la città di Napoli, ma anche per il calcio italiano, un qualcosa di unico e irripetibile.
Nik