di Marco Bonfanti

Il Lecco vince facile il turno infrasettimanale contro l’Alzano Cene. Vince di due gol, ma avrebbe potuto bucare la rete avversaria più volte se gli avanti non avessero sbagliato dei gol già fatti.  Vince e gioca pure bene, intesse una trama di passaggi, costruendo spesso azioni belle da vedere e irresistibili.  Si guarda la partita divertendosi e si sconta il rimpianto per una posizione da bassa classifica che avrebbe potuto essere migliore.  Il Lecco solo da ieri è salvo, e meno male. Ma è certamente poco per una compagine che, anche nelle nostre aspettative, era partita con ben altre ambizioni. Poi però ci si consola. Il Lecco di qualche mese fa era veramente inguardabile. Grazie anche al suo allenatore ha saputo risalire la china ed offrire, ahimè negli ultimi scampoli di campionato, un gioco armonioso. L’avesse fatto prima, la squadra blu celeste non sarebbe in quella anonima posizione di classifica. Ma tant’è e accontentiamoci. Come sempre sarà per il prossimo anno, perché, come sempre, a noi non resta che sperare, aspettando un meglio a venire.  E poi detto questo, sul Lecco resta detto tutto. E noi, così lasciamo da parte la squadra blu celeste e ritorniamo alla trasferta in serie A di Roma perché abbiamo una bella storia da raccontare. Bella di per sé e che ci dice tante cosa piene di nostalgia e di un altro mondo.

A Roma la partita è finita e noi, usciti dallo stadio, cerchiamo l’autobus per tornare in albergo, l’autobus 32.  Ad una fermata c’è un po’ di gente ad aspettare ma il nostro magico numero non è segnato. Io chiedo ugualmente ad un signore che è lì fermo e lui mi risponde che sì, nonostante la mancanza nel cartello, il nostro autobus passa di lì.  Allora chiamo gli altri, già in marcia successiva, e mi metto a parlare con il gentile romano di prima.  Lui mi chiede di dove siamo e, alla mia risposta che veniamo da Lecco, vuole sapere se siamo tifosi atalantini. Alla mia risposta negativa si mostra sorpreso ed allora io aggiungo che siamo venuti a vedere la Roma perché fra noi c’è un tifoso, per l’appunto, romanista.  Nel frattempo è arrivato Beppe che, da buon tifoso, si mette ad interloquire con l’altro. E così gli racconta questa storia che vi voglio narrare, che non so se è vera, avendo ricordi diversi, ma che comunque non importa perché è bella lo stesso.

Beppe racconta come è diventato romanista e fa un tuffo all’indietro di sessant’anni suppergiù.  A quei tempi, il sabato sera, c’era una trasmissione molto popolare che si chiamava  “il Musichiere”, con una sigla: “domenica è sempre domenica, si sveglia la città con le campane…”, che cantavano tutti.  “Il Musichiere” era una gara musicale tra due concorrenti, ma ogni volta c’erano due ospiti famosi che, intonati o no, si cimentavano in un più o meno riuscito duetto musicale, fra cui uno famosissimo fra Coppi e Bartali.  Bene, una sera questo duetto è appannaggio di due portieri: Lovati della Lazio e Panetti (nome evocativo per questa storia) della Roma. Siamo alla vigilia del derby e i due si scambiano battute ed  opinioni. La Lazio viaggia bene in quel campionato, la Roma no.  Panetti allora si rivolge a Lovati e chiede alla Lazio intera di essere clemente. Evoca la propria famiglia e dice, così ricorda Beppe, che se la Roma continua a perdere i suoi figli saranno ridotti alla fame, causa la scarsità degli introiti economici.

Beppe, dopo la trasmissione, va a letto turbato, pensa agli stenti della famiglia Panetti e non tiene a freno un moto di simpatia commossa per quella situazione quasi disperata.  Il giorno dopo  Beppe è attaccato alla radiolina e segue, con la dovuta apprensione, ”Tutto il calcio minuto per minuto”. La Roma vince e Beppe tira un respirone di sollievo: anche nella famiglia  Panetti si mangia.  Così va avanti, domenica dopo domenica, e alla fine si ritrova a tenere alla Roma, sperando sempre nella vittoria e nei cibi garantiti per familiari e affini.  E allora, io come lui, eravamo bambini. E ci stavamo arrampicando sul mondo ed il mondo era scivoloso, era facile tornare indietro molto di più di quanto lo fosse, con fatica, andare avanti.  Ma c’era con il mondo una contiguità che oggi non vedo più.  Anche il calciatore, mai divo, poteva avere i nostri stessi problemi, la stessa quotidiana fatica. Si andava avanti insieme, il passo era commisurato su quello degli altri, era impossibile restare indietro.

Ora che tutto questo non c’è più, che voglia di quella ingenuità.  E siamo a Pasqua, che è la festa di rinascita e allora l’augurio è quello: almeno ogni tanto, di ritrovare questo sguardo ingenuo come se tutto, anche gli antichi amori, fosse nuovo. E se ne sentisse la voce.