Così c’è un’altra finale dell’Italia, la mia sesta. Nel 1982 avevo cinque anni e penso fossimo andati tutti a San Giovanni, bellissimo rione di Lecco, a casa di mio zio Beppe. Ammetto di non ricordare nulla e di rischiare di confondermi con un’altra finalissima molto sentita a quell’epoca, Roma-Liverpool di Coppa Campioni un paio di stagioni dopo, tragicomica disfatta giallorossa ai calci di rigore con pianti e lacrime davanti alla televisione. Comunque andare da mio zio Beppe, il solo lombardo romanista sfegatato, è sempre stato uno spasso, perché è un uomo fighissimo. E mi dispiace che non lo vedo da un secolo, uno che ad ogni Europeo e a ogni Mondiale a noi, i suoi nipoti, ci faceva stare da lui per sere e sere a magnare, a scommettere e a puntare su chi avrebbe vinto, obbligandomi a tenere alla Scozia in quanto roscio di capelli. Mio zio Beppe è un uomo geniale, ha addirittura inventato un cartello stradale. Ma più delle sue inaspettate illuminazioni, il suo sorriso, quello di una persona che non aveva paura di stare a ridere e a scherzare su quattro cose sacre per la mia famiglia, i Bonfanti, in ordine d’importanza il calcio, l’amore, le carte e i rispettivi misteri. E poi c’era mio babbo, Marco, che per me è il pallone tanto io e lui ne abbiamo sempre parlato a lungo e pieni zeppi di poesia vedendole più o meno tutte, anche gare pessime e schifose del campionato danese.
Nel 1994 ero a Zadina di Cesenatico. Per via di una promessa fatta ai miei soci mi ero pelato, rasato a zero, via i miei riccioli rossi, gli altri biondi, sembravo uno skinhead, uno stronzo nazi, e mi vergognavo un po’. A far da mangiare c’era mia nonna Pina, leggendaria creatrice di tortellini favolosi, a leggere i giornali sulla sdraio c’era mio nonno Cesarino, viaggiatore e sognatore, il mio compagno di avventure era mio cugino Simone, che è un tipo dolce dolce e pieno di progetti, tra l’altro bellissimo, adesso uguale uguale a Robert De Niro in Novecento. Stavamo a vederla dalla piadinara, Baggio la tirò in curva e perdemmo col Brasile ai rigori. E con gli amici dell’estate andammo a dimenticarci della sconfitta al mare. Si avvicinò a me Lisa, che dopo quell’estate io non ho visto più. Andammo nell’acqua, lontano dagli altri a fare l’amore. E il profumo della sua pelle mischiata al sale è la sola cosa che non ho dimenticato di quell’ormai lontanissimo 17 luglio.
Del 2000 ricordo solo la voce di Bruno Pizzul al famoso golden gol di Trezeguet, due parole, “la beffa”, che con i miei amici usiamo ancora le rare volte che riusciamo a trovarci districandoci dai mille impegni che si hanno alla nostra età. Ho scordato completamente dove fossi a vederla, non so se a Lecco oppure a Bergamo, che già lavoravo qui, ma ancora non ci abitavo. C’era comunque un prato e avevo accanto i miei soci più cari. E avevamo perso, ma non eravamo disperati, del resto a vent’anni non si può esserlo mai.
Nel 2006 ero il capo dello sport al Nuovo Giornale di Bergamo. Ho scritto del trionfo con la Francia in fretta e furia e ho impaginato alla velocità della luce perché volevo andare a festeggiare in piazza. Quando vince l’Italia mi piace da matti, mi fa sentire parte di un popolo, tutti liberi e uguali, felici, casinisti e casinari, abbracciati, migliori. Così, fatta la prima con una bellissima foto di Franco Pasinetti, eravamo andati sul Sentierone, mezza redazione a gridare fino alla mattina. Era stato bellissimo e chissà Paolo, Fabio, Dario, Veronica, Anna e Manuela dove sono oggi, in quali case o in quali mari a vedersi questa nuova finale.
Nel 2012 ero in Croazia, gente bella come noi, pressoché tifosi azzurri, ma io avevo sempre addosso Vinicio e Zeno, i miei figli, allora piccoli piccoli, manine e piedini, spettacolo unico, il migliore visto mai, e la stupenda nazionale di Balotelli stava ogni volta in secondo piano perché io ero tra biberon, baci, passeggiatine sulle spalle, pesciolini, delfini, favole scritte da balene parlanti, chupa chupa a colazione e coccoline varie.
Ora sono qui in redazione, solo e nel silenzio. E l’ho scelto, lavorando tutto il giorno con lentezza. Ho una birra messa in frigo, ovviamente una Tennents, una aperta ora per non soffrire troppo degli scatti sulla fascia che farà quel diavolo di Sterling. Sono felice, in attesa di un’altra partita che, comunque, mi resterà per sempre sulla pelle.
Matteo Bonfanti