E’ da questa mattina che con i miei figli cantiamo in coro “Storie di cani in Posta”, il solo pezzo che ho scritto tratto da una storia vera. Il brano è nato l’altro ieri, lunedì 28 marzo dell’anno 2022, in quel luogo surreale, tra l’altro che ho già raccontato una volta, che è l’ufficio postale di Viale Giulio Cesare. La capa, che va detto a scanso di equivoci è pure una brava persona, buona e disponibile, ha la sfiga che ha un cane malato a cui tiene da morire, una bestiola di quelle bianche e marroni, con le orecchie lunghe lunghe, che lei controlla via WhatsApp grazie a una serie di telecamere, passione che ormai da mesi fa rallentare non poco il pagamento dei vari bollettini, perché lei, appunto la capa, al suo cagnetto tiene tanto, ma tanto tanto, tantissimissimo, e fa vedere il suo animale agonizzante a chiunque si trovi in Posta mentre lui lì rantola sul suo divano di casa, credo in un appartamento in zona Longuelo.
Ma “Storie di cani in Posta” non c’entra né con la capa dell’ufficio postale né col suo cane morente. E’ la storia vera e drammatica di altri cinque cagnetti bergamaschi, con cui sono diventato amico nell’interminabile attesa vissuta lunedì per pagare una multa assai discutibile presa cinque giorni prima proprio sotto casa mia per avere messo il disco una mezzorata dopo. Non sto a raccontare i cazzi miei, giusto due accenni: per avere creduto a un personaggio strambo forte, inimmaginabile, che ha pure l’avvocato sempre al seguito, mi trovo costretto a recuperare ogni giorno un sacco di soldi per ripianare i casini della mia azienda. E il tempo è denaro, sicché ne ho pochissimissimo.
Così lunedì arrivo in Posta trafelato a bestia ed è come sempre tutto al rallenty per via che la capa ha la già citata bestiola malata. Ma c’è di più, tre tipi davanti a me, per onore di cronaca abbastanza giovani e a modo, hanno cinque cani in tutto, in ordine due, due e uno. Gli sportelli sono tre, molto vicini. Non so cosa accade, è un attimo, i cani iniziano a buttarsi nell’amore libero neppure dentro un certo margine. E si mettono a inchiappettarsi tra loro, a caso, nell’incazzatura che il sesso di gruppo dà agli altri che non lo praticano e che, forse per questo, devono correre nel proprio ufficio a fare una fatica boia.
Io, nell’attesa, guardo Full, che però magari si chiama Fido o Macchia, ed è il più eccitato di tutti, col cazzetto ritto, e mi avvicino dandogli una carezza, spiegandogli bene bene il senso di una vecchia canzone, Turn Turn Turn, che ci ricorda che c’è un tempo per ogni cosa e non è che in Posta sia quello di tentare di scopacchiarsi la cagnetta della padrona che sta pagando bollette a nastro. Full, non so come, capisce, e in me, sul suo dramma, nasce la canzone che prima o poi pubblicherò per il grande pubblico.
Matteo Bonfanti