Magari è la pratica di quando si invecchia, gli eroi della propria gioventù li si vede più fighi di quelli che sono in voga ora mentre si galoppa a vele spiegate verso i cinquanta, ossia la pienissima maturità. Per mio babbo, Marco Bonfanti, famoso poeta lariano, Fabrizio De André valeva mille e passa volte Manuel Agnelli, Cristiano Godano e Davide Toffolo messi assieme, i tre che più ho amato da ragazzino e che ancora mi esaltano se ne acchiappo una nota per caso su Radio Italia. Sarà stato il 1999 e mio papà mi diceva “non c’è più la musica di una volta” e pensavo “sta diventando anziano”. Ieri con Marco Neri, mio marito, venticinque anni di matrimonio lavorativo, freschi in questo 2025 delle nostre nozze d’argento, da festeggiare a settembre nella sede di Bergamo & Sport, impaginavamo le presentazioni di Trevigliese e Cisanese sbignando l’ennesima sfida tra Sinner e Alcaraz e ci dicevamo “non ci sono più gli sportivi di una volta”. Ora sono robot, aggiungo mentre scrivo. Si rimpiange Panatta, assoluto figaiolo, si rimpiangono, soprattutto, Platini, Maradona, Elkjær, Gullit, Ronaldo il Fenomeno, quindi, qui da noi, appena un attimo dopo, re Riccardone Zampagna, a Barcellona Dinho, in Brasile Romario, il massimo dei massimi, ragazzi perennemente impegnati a organizzare serate per arrivare al fischio d’inizio della domenica pomeriggio intatti non si sa come. Così nel ciclismo, Pantani, il solo di cui non mi sono perso manco una tappa, il re di ogni balera tra la Riviera e il West, tutti leggendari, unici, superstiti, fisici e politici, passionali, pieni zeppi di parole nuove e divisive perché mossi dal vivere. Non solo dalla prestazione sportiva.
Diego, il più grande, arrivava negli spogliatoi direttamente dalla notte prima. Ed erano racconti da brividi. In campo metteva quello che gli restava addosso dopo la mirabile e miserabile fantasia del suo vissuto tra i poveri cristi, ogni volta le fantastiche geometrie arrivate dai Quartieri Spagnoli, di cui era il personale santo del dio pallone. Gullit a Milano era la stessa cosa e le cronache dell’epoca qualcosa narrano, ma il Silvio, con l’identica passione dell’olandese, la topa, sapeva benissimo quali fossero i giornalisti da silenziare al volo. Adesso ci toccano questi, gli iperperformanti, nella bolla, diciotto ore di allenamento al giorno quando gli altri, dico i nostri eroi, si imboscavano al primo giro di campo ordinato dall’Osvaldo o dall’Arrigo.
Guadagnano moltissimissimo di più, fanno record a pioggia, ma sono lontani da noi, extraterrestri, subumani. Non lottano per le cause che amiamo, Diego per Cuba, Ruud per Mandela, ad esempio, non sognano, raccontano il minimo indispensabile, frasi concordate nel minimo dettaglio con il proprio ufficio stampa, cento migliaia di volte i loro sacrifici, il brodino, le vitamine, le pomate, il fitness a oltranza, le notti a spaccarsi nella palestrina personale con mamma e papà a guardarli, i primi invasati al seguito. Mai dal loro trono arriva un’emozione, anche solo due parole due sul dramma di questo tempo, lo sterminio dei palestinesi orchestrato dai quattro imbecilloni al comando del pianeta, mai una lacrima che sia vera per chi al mondo ci sta male e non ci riesce più a stare perché non ha i soldi per mangiare. E saranno fortissimi ed eterni, bravi bravissimi, tonici, potenti, dinamici, velocissimi, politicamente corretti, pronti ad applaudire l’avversario con l’inchino di rito, ma a me che vinca Sinner o che vinca Alcaraz, Pogacar o Vingegaard, Messi o Ronaldo, non mi frega perché non mi appassionano. Io amo gli uomini, sono simili a me, grandezze e miserie, slanci e pause assolute sulla via di Damasco, pensieri e parole per un mondo migliore. Mi fanno immedesimare. Le macchine, invece, giusto in qualche libro disperato e rivelatorio sui nostri strani giorni.
Matteo Bonfanti
lunedì 14 Luglio 2025



