Ottobre è un mese che mi piace molto nel calcio. È il momento in cui l’entusiasmo delle prime giornate lascia spazio a qualcosa di più concreto: le squadre hanno iniziato a conoscersi, i ruoli sembrano delinearsi, e spesso emergono i primi dubbi. Ci sono giocatori che si chiedono: “Il mister non mi vede? Non sto giocando nel mio ruolo? Devo cercare un’altra squadra appena possibile?”
Sono pensieri comprensibili, ma è proprio qui che entra in gioco il valore del tempo. Una squadra non diventa un gruppo compatto in due settimane: servono partite, allenamenti, errori e aggiustamenti. Il calcio è pieno di emozioni immediate, ma insegna anche che la crescita richiede pazienza e costanza. È una palestra di vita unica, perché ti obbliga ad affrontare situazioni che non controlli del tutto. Non sempre puoi scegliere quanto giochi o in che posizione, ma puoi sempre scegliere come giochi quei minuti. È un po’ come un artigiano: non fa la differenza solo nella grande opera, ma anche nel piccolo lavoro quotidiano, fatto con cura e dedizione.
Riconoscere la difficoltà. Il primo passo, quando arrivano questi dubbi, è avere l’onestà di riconoscerli. Fermarsi e chiedersi: che tipo di difficoltà sto vivendo? È oggettiva, legata magari a un aspetto tecnico, fisico, tattico; oppure nasce soprattutto dalla paura di non essere all’altezza? Spoiler: la prima vocina che parla dentro di noi difficilmente è quella della razionalità. Spesso è quella della paura. E distinguerle è fondamentale.
Parlarne in modo costruttivo. Un’altra cosa importante è non chiudersi. Non c’è nulla di cui vergognarsi se si sente una difficoltà, anzi: parlarne con la persona giusta può fare la differenza. L’atteggiamento, però, è cruciale. In tanti anni ho visto il classico “pellegrinaggio” dal direttore sportivo: ragazzi che, con le orecchie basse, andavano mesti a dire “il mister non mi vede, può mettere una buona parola?”. Questo raramente porta i frutti sperati, anzi. Chi ascolta pensa: “ma allora io che ti ho scelto, ho sbagliato?”. Un approccio diverso e molto più utile può essere: “Sto facendo cose che per me sono nuove, e non sempre riesco a esprimermi al meglio. C’è qualcosa che posso migliorare? Su cosa posso lavorare?”. Questo cambia completamente la prospettiva: non sei più quello che subisce, ma quello che vuole crescere.
I dettagli fanno la differenza. Nella mia esperienza vedo che, davanti alle prime difficoltà, molti reagiscono con scelte dettate più dall’ansia o dalla fretta che dalla razionalità. C’è chi smette di lavorare su aspetti fondamentali come la forza o la mobilità, quasi a voler “alleggerire” il proprio percorso pensando che basti giocare la partita per crescere. Altri, al contrario, sentono di dover dimostrare ancora di più e riempiono l’agenda di allenamenti, riducendo al minimo il recupero. Sono comportamenti opposti, ma che nascono dalla stessa spinta: la paura di non riuscire a esprimere il proprio valore. E alla lunga portano allo stesso risultato: il corpo non regge, la mente si stanca, la prestazione cala. Eppure proprio forza, mobilità e recupero sono pilastri: la forza non è solo “palestra”, ma protezione dagli infortuni e stabilità nei contrasti; la mobilità è ciò che rende fluido il gesto tecnico; il recupero è il momento in cui il lavoro svolto diventa davvero utile. Allenarsi bene significa trovare equilibrio: dosare carico e scarico, accettare che i progressi non arrivano in due settimane ma richiedono costanza. È un investimento che il tempo, prima o poi, ripaga sempre.
Il tempo è un alleato. Le difficoltà nel calcio ci saranno sempre: un ruolo che non è il tuo, una partita in panchina, un periodo in cui non giri come vorresti. Esattamente come succede nella vita di tutti i giorni. Ma il tempo non è un tuo avversario: è l’occasione per crescere, per imparare, per dimostrare il tuo valore. Con il tempo e con la giusta mentalità, ogni momento in campo, che siano novanta minuti o dieci, può diventare un passo in avanti.
Alessia Mossali