di Matteo Bonfanti
Ieri sera ero sul divano tutto concentrato sui vegetariani. Il motivo è che mio figlio Vinicio, otto anni, rifiuta di mangiare le polpette che gli preparo con tanto amore perché soffre per via della necessaria esecuzione del manzo che poi finisce nel suo piatto. Dice: “Dobbiamo smetterla di uccidere gli animali che sono come noi ed hanno un cuore e tra di loro si vogliono un sacco bene”. Io gli rispondo che nessuno ammazza nessuno, ma che le bestie che ci pappiamo crepano di vecchiaia. E gli assicuro che al mondo non si trova una persona così cattiva da prendersi la briga di far fuori un essere umano ancora in forma. Gli spiego con la faccia seria, dandomi un tono da intellettuale: “Figlio mio, un tempo c’erano i nazisti che erano terribili. Ma poi si sono estinti e adesso va meglio”. Insomma gli mento. E lui alza le spalle, un po’ come si fa quando si chiacchiera coi matti. E pensa: “Sì, sì, papà e lunedì ho pure visto uno stormo di maiali volanti. Sapessi che geometrie che facevano. Parevano le frecce tricolori quando si esibivano a Cattolica”.
Detto di Vinicio che è un bravo tipo, il problema vero è un altro. Sono i vegetariani che vanno in vacanza in tenda portandosi lo zampirone. Li ho visti di persona, non sparo balle: arrivano in Sardegna, si installano e sterminano intere popolazioni di zanzare. Che hanno un’anima, degli affetti, dei figli zanzarini da far crescere, da tirare grandi con le difficoltà che s’incontrano quando si è genitori. E io mi chiedo perché le mucche si devono salvare mentre le mosche si possono accoppare? E le formiche (che nel loro piccolo s’incazzano)? Mia mamma le brucia. Non ha pietà. Gli dà fuoco coinvolgendo l’altro mio bambino, Zeno, sei anni, anche lui sulla strada per diventare “veggy” eppure strafelice quando si tratta di appiccare incendi nel giardino dei nonni. Per il formicaio è una catastrofe come per noi la bomba atomica a Hiroshima. Eppure non vedo persone che lottano per fermare il massacro che accade ogni sabato appena fuori dalla mia casa materna. In Italia. Nel 2015. Senza che ci sia uno straccio di animalista a denunciarlo. E nel totale silenzio delle istituzioni.
Serve più equilibrio. Io non sono vegetariano. La carne mi piace assai, ma mi limito. Faccio così anche con gli altri esseri viventi. Mi nutro facendomi prendere dal senso di colpa per qualunque cosa. Magno un pomodoro chiedendogli scusa oppure prego per la carota bollita sperando che la sua anima si trovi beata nel paradiso dei tuberi, magari a far l’amore con l’altra carota che sta riempiendo lo stomaco di mia moglie. Il massimo della sofferenza lo raggiungo coi fagiolini. Torno a casa tardi perché ci sono le partite di coppa da mettere sul sito. Apro il forno e li vedo lì, una fila di cadaveri, stesi in quella fossa comune che è la pirofila. L’immagine è da brividi. E spesso mi commuovo. E allora salto il pasto e mi apro una birra. Ma ultimamente la lascio a metà per dimostrarmi vicino ai parenti del malto, una pianta che i signori della Ceres coltivano per poi ammazzare. Assassini. Fermiamoli.
Stimo assai i vegetariani, in famiglia sono tre su quattro. E’ gente buona che ha sempre in testa la sorte dell’agnellino, del vitellino e del coniglietto. Eppure li trovo ingiusti quando li becco a farsi un’insalatona a cuor leggero. Gli dico: “Ci sono studi che hanno dimostrato che i baobab comunicano tra loro da una parte all’altra del mondo. Chissà cosa combina l’erba cipollina… Magari quando l’avete comperata all’Esselunga era dietro a fare una conferenza sull’Africa”. E loro fanno finta di niente. Come se il problema che sollevo non esistesse.
In me c’è, insomma, un po’ di delusione. Passerà. Stasera vado in un ristorantino che fa il pesce in modo divino. Che tanto il branzino sentimenti non ne ha. O forse ne ha a bizzeffe. Ma evito di pensarci. Qualcosa dovrò pure mangiare.