Che poi per me tornare bambino è mangiare le tagliatelle di mia nonna Pina intanto che mia zia Tella racconta qualcosa di divertente successo mesi fa nel centro di Bologna mentre sua sorella gemella, mia zia Cristina, sorride, perché lei è beata, e mia mamma, che è Valeria, la più grande delle tre, fa piccole cose splendidamente insospettabili perché tutto funzioni bene bene, tipo il caffè, il suo, che è forte, pieno, buono come solo certe volte il pane.
Per me l’infanzia è questo, Bologna che è rossa ed è una favola, quattro donne accanto, Silvia che lo sa, Luca Carboni alla radio, i portici, San Luca, sedermi in una tavola imbandita con tante cose fenomenali ingurgitate alla velocità della luce. Essere pieno raso senza averne più, ascoltando la solita frase della Pina, “mangia, Matteo, giusto due polpettine”, “no, nonna, non posso”, “mangia, Matteo, sei patito”, “no, davvero, sto per svenire, prendo una pausa e mi metto sul divano, continuo dopo, magari sto pomeriggio, ma solo se sarò ancora vivo”.
E poi il rosario della sera, che siamo una famiglia cattolica, ma alla cazzo, così come passatempo, giusto per via dei pizzicotti presi e dati, che nessuno di noi è mai riuscito a farsi una preghiera davvero, dico un Padre Nostro per intero, da quando dice “sei nei cieli” fino a “liberaci dal male, amen”, insomma senza pause, credendoci davvero, in modo serio, con l’idea che se sgarri, ti arriva quantomeno un fulmine vicino alla testa per avvertirti che non è il caso di giocare con Dio.
Noi no, quel Dio cattivo e noioso preso andando a dottrina non ci è successo mai. Ci scappa sempre una risata quando meno te lo aspetti, persino durante il Gloria al Padre, una ghignata liberatoria, contagia il più vicino ed è un casino zeppo di felicità, del resto trattenersi il solletico sulla pelle è una disciplina impossibile persino ai guru più famosi, manco Osho se fosse ancora in vita, e se voglio bene a Gesù è anche per questo, a Bologna mi ha fatto un sacco ridere.
Così ritrovarci oggi a Valgreghentino, a Lecco, lontani dal Dall’Ara, la casa della mia specie, la mia parte femminile, dolce, ironica, unica, irriverente fingendosi normale, quella di Bo, in Piazza della Pace lungo viale Saragozza, dritto dritto fino al Nettuno, è stato rivivere in un secondo quarant’anni ingordi, liberi, creativi, felici, con la speranza addosso, di nuovo e ancora su ogni millimetro della mia pelle. Io bimbo, giusto qualche sigaretta in più, ma ogni cosa uguale, le tagliatelle col ragù magnate come non ci fosse un domani, la nonna Pina e la solita frase “mangia, Matteo, ti vedo magrettino”, Tella, Cristina e Vale, le bimbe come le chiamava Cesare, mio nonno che ora non c’è più, loro tre, anime stupende ora come allora, l’appartenenza tra i nostri capelli, che è singolare, ma è lo stesso colore delle nostre idee, la preoccupazione che hanno ogni volta, “Matteo, stai diventando castano”, “no, è l’estate, poi d’inverno torno la solita fiammella”, io al centro, noi quattro nell’aria, scompigliati, rossi, rosci e ricci, Dio, Gesù, Marx, il Che, Fidel, il pugno chiuso, sentirmi fortunato nel mio destino eccezionale, in testa e tra i fianchi, finalmente protetto, in famiglia, bello, forte, libero, coccolato, senza che qualcuno possa arrivare a farmi del male.

Nella foto di zia mia Tella sono con Vale e Erni, peccato non esserci tutti

Matteo Bonfanti