A volte penso sia la mia faccia da pirla, altre che gran parte della popolazione bergamasca creda che io di lavoro non faccia niente di niente perché mi alzo tardi, resta che da un po’ arrivare in ufficio è diventata un’impresa.
Oggi sono andato in Posta a pagare la solita multa, stavolta presa perché superavo il limite di tredici chilometri orari, settantotto euro buttati nel cesso perché andavo a settantatre all’ora con la mia Panda, che poi io quella straordinaria velocità con la mia maghina non ricordo di averla fatta mai. Ma non è questo il dramma e il mio intento non è quello di fare polemica coi vigili, che sono brave persone, il mio problema sono gli altri, la gente intorno, che mi guarda e chiacchiera per ore. Per prima l’impiegata, una signora sulla cinquantina di origine meridionale. Dallo sportello ha attaccato a parlarmi delle sue vacanze, quest’estate va in Sicilia, sappiatelo, e giù con l’elenco delle bellezze isolane, poi ha affrontato la questione del suo cane, ormai vecchio e secco, che lei monitora costantemente via whatsapp grazie a una serie di telecamere messe in ogni stanza della sua casa. “Ha visto cosa si può fare oggi giorno? Guardi qui”. E giù scene raccapriccianti, col cane steso a terra, un bastardino bruttone, ho immaginato a un passo dalla morte. E io pensavo “ok, ok, brava, tutto bellissimo, ma come faccio a tagliare la corda visto l’immenso ritardo lavorativo accumulato anche perché al bar sotto casa mi sono letto più o meno l’intera Gazzetta dello Sport?”. Quando ha iniziato a parlarmi del marito, un bravo tipo, e dell’ottimo rendimento scolastico della figlia quindicenne, ho preso coraggio e le ho chiesto se eventualmente la multa potevo pagarla anche in banca. Qualcosa nel cuore dell’impiegata si è mosso, una sorta di competizione con le istituzioni bancarie o forse solo un po’ di misericordia, e finalmente ha fatto strisciare il bollettino che mi avevano inviato a casa i vigili di Buccinasco. “Grazie per essersi servito delle Poste”, “Prego, è un piacere”. E via a cercare la Pandona che bene bene non mi ricordavo dove minchia fosse dalla sera prima.
Mentre la cercavo un uomo buono e grigio di capelli, penso gay, ma è un’idea così, magari è etero, che frequentavo quando il mio cane, Savi, era ancora in vita, mi ha bloccato. “Hai visto quanto è diventato grande il mio? E il tuo Savier come sta?”, “E’ muerto tre mesi fa, è stata una botta, aveva la nefrite”, e addosso con il suo interrogatorio e io, sulle difensive, a spiegargli la rava e la fava, il dolore di averlo perso, pensieri, parole, emozioni, il fatto che poi vedere il proprio cane tirare le cuoia sia la stessa tragedia che si vive a perdere una nonna buona. “Sì, ma anche tua nonna ti ha lasciato?”, “No, tranquillo, mia nonna Pina sta da dio, una meraviglia”, e di nuovo a chiacchierare di nonni e lui a dirmi quanto sia legato ai suoi avi e io a rispondergli “immagino, sì, sì, bravo, serve, sono le nostre radici”. Poi a un punto, come per magia, riecco apparire la mia Panda arancione in viale Giulio Cesare e io che dico al signore buono e grigio di capelli “vado al lavoro, ci aggiorniamo” e lui “fai gli auguri a tua nonna Pina” e io, sorridente, “non mancherò”.
Quindi salgo sulla Pandona e all’altezza del semaforo del Palazzetto uno ruggente, che sta su un Suv spaventevole, inizia a suonarmi. Guardo l’orario sul cellulare ed è quasi mezzogiorno, mi dico “un’altra chiacchiera anche no, mi aspetta Monica per tirarci insieme col free press, non posso”. E invece sì, scende e mi dice “fermati un attimo” e io penso “oggi dev’essere così che quel che accade ha un senso”, citando nella mia mente un mio lontano parente che di lavoro fa il cantautore ed è pure famoso. Sta di fatto che il tipo, quarantino, belloccio, palestrato, a cui non manca niente, penso direttore di una filiale di banca o spacciatore di cocaina, insomma quel genere che piace in Lombardia, mi spiega che sto rischiando la vita perché ho lo specchietto sinistro chiuso verso la portiera. Gli chiedo scusa, mi dice “ma no, sei tu che potresti fare un incidente”, capisco che sotto sotto è uno tenero, che agli altri ci pensa, e lascio che si apra a me, la sua donna, immagino una gran bella fighetta, mora, lunga e tettona, lo ha lasciato o lo sta facendo, gli dico “coraggio” e gli do l’indirizzo della redazione nel caso abbia bisogno di parlare un po’.
Evito di dilungarmi sul resto. Dico solo che a un certo punto sono pure arrivato in redazione, mi sono seduto sul cesso a leggere due cagate su internet, ma non ce l’ho fatta né a scaricarmi né a informarmi. Prima al telefono l’addetta stampa di una squadra di calcio femminile, inviperita con me perché non seguiamo la Promozione Donne, “ce l’hai con l’altra parte del cielo, vergognati, maschilista”, “no, davvero, devo solo informarmi, ci tengo un sacco”, poi mia mamma “arrivo a tenerti i ragazzi, ma ti sei tagliato i capelli?”, “no, ma’, non ho avuto tempo”, “bene, allora la pagherai”. Quindi è arrivata la mia amica Greta, anima stupenda, a raccontarmi felice del suo amore con Matteo, ex pittore di talento, che, puntualmente, siamo andati a trovare a Curno, dove ora fa il pizzaiolo davvero bene, con arte, ingegno e maestria.
Va beh, sono le sette e mi sto mettendo a lavorare. Queste righe sono per Zeno, il mio secondogenito, che mi ha appena chiamato per dirmi, va detto con la sua vocina dolce e gentile, “ma papà, tu che non fai un cazzo nella vita, non potresti portarmi stasera a colorarmi i capelli di rosso da un cinese qualunque?”.
Matteo Bonfanti