di Matteo Bonfanti
Ho fatto due figli: Vinicio, spirito libero in tutto e per tutto, cittadino del mondo, amico fraterno di africani, polacchi, ucraini e boliviani, uno che gioca a pallanuoto da sempre e che non sopporta i calciatori, e Zeno, il mio bergamaschino doc, che tanto mi sta insegnando della gente di qui, che da vent’anni frequento senza capirci un granché.
Intanto c’è il profondo legame che ha con l’Atalanta, che lui chiama Dea almeno venti volte al giorno e che è qualcosa che non si discute, ma che si ama a prescindere. Giovedì sera sul divano: il mio piccoletto abbracciato in stile cozza, a papparsi le unghie mentre il Borussia sta facendo il diavolo a quattro per pareggiarla. Berisha fa la cazzata, i tedeschi segnano, lui mi guarda, con i suoi quasi dieci anni portati da convintino e mi dice: “C’era da fare la storia… Andrà meglio la prossima volta. E comunque abbiamo vinto noi. Hai visto la Nord cos’ha fatto? Siamo i migliori. Sono fiero”.
Ed è questa cosa qui, che avverto da un po’, e che ha dell’incredibile e che nel calcio rende unica l’antica popolazione orobica: si chiama Curva. Lungi da me impegnarmi in un elogio al Bocia, che è un duro, l’opposto di me che sono assai femminile. Eppure il capo ultrà, che i miei concittadini hanno messo a mo’ di Cristo nella chiesa più frequentata della nostra città, ha realizzato un capolavoro. Per Zeno, così come per Cesare, il suo migliore amico, altro super bergamaschino che giovedì era a Reggio Emilia, l’idolo, l’uomo che sognano di diventare il giorno non lontano che saranno grandi e grossi, non è Papu Gomez, ma Claudio Galimberti, la vera star del pianeta nerazzurro, il santo protettore del dio pallone, quello che è stato Maradona nel quinquennio a Napoli.  
Non è solo il mio Zeno, è anche il nostro politico più famoso, Daniele Belotti, curvaiolo fino al midollo, i miei amici del martedì al calcio, Flavio e Bruno, gente che sul lavoro è il meglio che c’è in Italia per intelligenza e intraprendenza, accecati quando gli si parla della Nord, per loro un gioiello, per il resto del mondo un covo di violenti. Lo stesso Percassi, l’imprenditore di questo secolo infinito, le tre volte che l’ho sentito parlare aveva quel modo lì, la voce sofferta, un po’ roca, la parlata in dialetto, la sola idea nerazzurra nella capoccia. Trasudava fede atalantina da ogni poro.
Non mi dilungo in questo articolo, che ha un sacco di ovvietà e non è così importante, dico solo altre due cose. La prima è che ero a vedere Atalanta-Juventus, ovviamente con Zeno, in piedi nei Distinti Nord, per via di una mediazione tra me, che volevo andare in tribuna, e mio figlio, che sognava la Curva. Bene, siamo arrivati e c’erano già le squadre in campo e la gente vicino a noi faceva le foto. A Torino avrebbero immortalato Higuain, che stava a fare stretching a una decina di metri, a Bergamo erano tutti voltati verso l’ormai imminente coreografia. Centinaia di cristiani che si facevano selfie con quello sfondo lì, altri tifosi, i veri protagonisti dell’intera vicenda. E in quel momento mi è venuto un altro pensierino dei miei, con annesse le solite tre domande da un milione di dollari: ma la Curva fa degli allenamenti? Mi spiego: come cavolo fanno a girare le tesserine in quel modo così preciso e all’unisono per creare quell’incredibile performance artistica che è lo scudettone dell’Atalanta col grigio-argentato tutto intorno? Si trovano a provare in settimana? Chi sa, dica.
L’ultimo paragrafetto è su di me, che sono di Lecco, un tipo d’acqua dolce. E da ragazzo sono andato a tifare i blucelesti, anche facendo casino, il cretino soprattutto nel derby col Como. Mai ho saputo chi fosse il nostro leader. E infatti la fede non ce l’ho. Tenevo all’Inter, poi alla Juventus, quindi, quest’anno, al Milan, da ieri tengo all’Atalanta per solidarietà nei confronti di Zeno, che spero non legga questo articolo. Se lo facesse mi darebbe della banderuola, con disprezzo, iniziando il suo incazzoso rimprovero con un “Pota, papà…”.