E allora mi giustifico, che da sempre è il mio secondo lavoro, e mi dico “va beh, non lo sapevo, e poi ero impegnato o a tavola con qualche amico o a farmi la mia dose quotidiana di parole nuove nella vena che va dall’anima del mondo dritta dritta al mio cuore”. Ma non è abbastanza, avrei dovuto almeno scriverti, caro Matte, che ti ho visto sette volte in vita mia e ogni volta mi hai colpito per la tua generosità. E’ fatta di sorrisi, segreti, ricordi imperdonabili, bevute, colpi di classe e, soprattutto, golassi partendo dalla fascia per concludere a giro all’altezza del dischetto del rigore dopo averne scartati un paio o tre.
Oggi ho saputo che alla vigilia di Natale è mancata tua mamma, di cui mi avevi detto, spiegandomi che era la migliore di tutte, identica alla mia, capace di far saltare fuori l’arcobaleno se anche solo per un attimo dentro di te o nel Sebino stava cominciando a piovere. Era aprile dell’anno appena passato, me ne parlavi mentre ti avevo obbligato a presenziare all’ultima delle mie fesserie, la canzone del calcio provinciale, tu e le altre anime belle del nostro grande e meraviglioso circo obbligati a cantare a squarciagola le mie frasi sul pallone. Dio solo sa quanto mi aiutavi, che in quello studio di Dalmine facevi un po’ Vasco Rossi e un altro po’ il barista del Tassino, servendo Spritz ai calciatori più timidi per farli sciogliere e scherzare. E alle dieci di sera, quando ormai erano tutti andati, io e te eravamo ancora lì, appena fuori, di fronte al mio Pandone Arancione a Metano, a sparare cazzate sulla vita, sull’amore e sul pallone. Ridevamo come matti e da lì ti ho scelto, tra i pochi nella mia categoria “semplicemente un grande”, dandoti appuntamento a un momento più tranquillo, magari a Sarnico, a fare il bagno, bevendoci Tennentsine a nastro, ricordando le tue prodezze al Brusa e i miei articoli per celebrarti. Ma un progetto del genere, per due zingari come noi, è difficilmente realizzabile, c’è sempre qualcosa o qualcuno che arriva all’improvviso e così si cambia il programma e nel frattempo passano le stagioni, rimandando il beccarsi a data da destinarsi, forse all’inizio del prossimo campionato, forse durante i play-off, tu in campo col numero nove e io col solito taccuino giallo limone. Lo sai e lo so, ma comunque te lo dico ancora, sei unico nel nostro pallone, fortissimo perché geniale, allegro perché anarchico, e pure come persona, uguale in campo e nella vita. Così, col mio solito immenso, ma trascurabile ritardo, ti sono vicino, che sono certo che stai male, perché oltre ad avere un tocco di palla fantastico, pure il tuo cuore è identico, che anche la sensibilità è una parte rilevante del gioco che ci piace frequentare. Quindi coraggio grande Matte, che tua mamma adesso è in paradiso a mandarti giù i soliti baci, e passa in redazione, che per i campioni come te la nostra porta è sempre aperta.
Matteo Bonfanti
Nella foto: Matteo Sora e Andrea Guariglia, due stupendi, a cantare We’re the fubal