La notizia più triste del mio ultimo anno mi è arrivata un attimo prima di mettermi a rianimare un manichino privo di gambe nell’ennesimo corso alla Prelab di Calcinate sulla sicurezza aziendale e i suoi mille e passa misteri. Un messaggio di Marco, tre parole, “è morto Pelucchi”, una cinquantina di secondi dopo il dottore mi ha chiamato per farmi fare pratica e io, sotto shock, ho cannato i quattro passaggi tra lo stupore generale. Strana la vita, ero a tentare di capire come si fa a far ripartire un cuore nell’esatto momento in cui si era fermato il mio.
Ammetto che sono molto triste, giù in un fosso, perché ero legato a Roberto, anche se come capita a noi giornalisti ci vedevamo poco e male. Lui amava come scrivevo, il mio modo strambo, che fa ridere anche quando ho addosso il pianto, io amavo quello che scriveva, le malefatte dei potenti raccontate senza la minima paura delle ritorsioni che spesso arrivano e fanno pure un sacco male.
Il Pelu se ne fotteva. Era un uomo coraggioso perché aveva un’immensa professionalità, quella che lo aveva portato a Milano, redattore della Gazzetta dello Sport, il massimo dei massimi. Per lui manco c’era la possibilità di nascondere una notizia scomoda, se uno fa il giornalista, la deve rivelare andando fino in fondo, evitando sconti, a costo di rischiare il posto o di prendere due sberloni. Inutile dire quanto Pelucchi piacesse a tutti noi, che siamo anime libere, era il migliore della nostra generazione che ha tra i quaranta e i cinquant’anni, credo perché qualsiasi suo articolo ci ricordava la bellezza della stampa quando non ha paura di dire la verità.
Fino a che si ammalasse, io e Roberto ci scrivevamo cazzate su Messenger quasi ogni giorno, perché il Pelu privato era un’altra cosa, sempre a ridere e a far battute, il più delle volte riguardo alle tante fighe di legno del nostro fantastico universo lavorativo. Incontrarlo di persona era da scappellarsi, veniva a trovarci in redazione sotto Natale, a partite ferme, andavamo a bere un paio di bicchieri al Blu Puro ed era tutto uno scambiarsi notizie di gossip, quello ora sta con quella, quell’altro potrebbe andare a lavorare in quest’altro giornale, il tale direttore rischia di brutto perché il suo quotidiano è a picco. Era piacevole, era leggero, era un bellissimo tipo.
Con me Roberto è sempre stato generoso, disponibile a spendersi gratuitamente per qualsiasi minchiata uscisse dalla mia testa, una volta a far lezione ai nostri collaboratori, un’altra a confrontarsi con le altre grandi penne bergamasche per i dieci anni del nostro settimanale, un’altra ancora a portarmi a Milano per farmi collaborare con la Gazza. Mi mancherà come amico tanto quanto mi mancheranno i suoi articoli, i suoi libri e quell’idea meravigliosa del giornalismo, un mestiere che per lui aveva la g maiuscola.
Matteo Bonfanti
Nella foto: Roberto Pelucchi, in piedi, nella nostra redazione nel 2015, qui con Luca Bassi