di Matteo Bonfanti
Raramente mi lamento dello Stato. Averci a che fare soddisfa il mio lato masochista. C’è in ognuno di noi, in me è assai presente, quindi non ho mai pensato di scappare dall’Italia. Neppure quando ho vissuto a Londra. Ero lì, in Inghilterra, e ogni cosa funzionava alla perfezione e io non so perché, ma sentivo che il mio Paese mi mancava. Ci ho riflettuto, arrivando anche a una risposta frutto di un ragionamento niente male: sto bene qui perché è una nazione che ti tiene in forma. Esci di casa e ti trovi a vivere in un gioco in scatola, a volte il Monopoli, quando ti tocca ripassare dal via, a volte il Risiko, che è la riproduzione della guerra. Che si fa persino nel piccolo alimentari. Sono lì che è il mio turno da un pezzo e ho in testa di prendere poca roba, un etto di prosciutto crudo. E l’operazione diventa estenuante, il commesso annoiato ingaggia un duello psicologico con me: mi dà un’occhiata e si mette a sistemare il pane, poi rialza lo sguardo, lo guardo in cerca di attenzioni, mi ignora e mette in vetrina il vitello tonnato, le olive ascolane, le alici marinate e il polipo a pezzetti.  Arriva una vecchina, che, nonostante abbia ottant’anni, ha il demone in corpo. Fa l’indispettita e lui la serve al volo e io trovo il coraggio di dirgli che ci sono anch’io che sono lì da un po’ e che dovrei andare a lavorare. E lui mi dice: “E che fretta, chissà cosa dovrai fare? Alzare il Pil della nazione?”. E io abbasso la testa, sentendomi sgridato e tento la via dell’umiliazione che è la strada giusta perché finalmente mi accontenta. Vado via fiero: la battaglia è vinta. Ce ne saranno altre durante la giornata, ma sono rinfrancato: ce la posso fare.
Va così nel privato che a confronto del pubblico è un’isola felice. Non esagero, ve lo dimostrerò. Mia moglie lavora, quindi ci si spartisce la burocrazia. Si alza presto, quando io ancora dormo, e mi segna tutto su biglietti volanti che trovo nei pressi della caffettiera: “Vai in posta, vai in comune, vai dal tabaccaio per il bollo auto. E fai la carta d’identità che sono ormai due anni che sei nella più totale clandestinità”. Io bevo il caffè e vado in bagno a riflettere, portandomi la lista del giorno, cercando di capire quale sia la priorità. Escludo la carta d’identità che immagino sia un lavoro immane, capace di farti morire dalla fatica. E mi concentro su una cosa, a caso, per sentirmi in pace col mondo, insomma utile alla causa famigliare. Ieri mi sono buttato anima e corpo su una raccomandata da ritirare.
Prendo la macchina in garage e parto. Sono un uomo assai ottimista, quindi mi dirigo all’ufficio postale con una qual certa speranza, sogno che lo Stato abbia sbagliato a fare i conti sul mio reddito e desideri mettersi in pari, ridandomi indietro i soldi dell’irpef del 2009, che ammetto di non sapere manco che tassa sia, per che cosa. Mi metto a cercare un parcheggio ed è impossibile perché tutti i bergamaschi hanno deciso di prendere l’auto. Giro e rigiro, mi allontano dall’obiettivo. Finisco a un chilometro, trovo un parcheggio blu, presidiato da un negretto che vuole un euro. Glielo do, in cambio mi dà un biglietto che scade alle 11 e 44. Valuto con cura la situazione e il mio stato di forma: ho otto minuti per andare, far la coda, ritirare la raccomandata e tornare. Sono 480 secondi. Gonfio il petto, mi sento Bruce Willis in Die Hard e comincio a correre all’impazzata. La gente mi guarda, una donna preoccupata mi chiede se va tutto bene, le faccio cenno di sì con la testa, ma non mi fermo a spiegarle nel dettaglio perché il tempo a disposizione non è poco, ma neppure tanto.
Arrivo carico. Pronto per la battaglia. Prendo il bigliettino, guardo il numero e sono felice. Ne ho otto davanti. Ritireranno anche loro delle cose, che ci vuole? Calcolo dieci secondi a testa, mi convinco: se proprio mi va male, sto lì un minuto e mezzo. Invece l’attesa diventa estenuante perché gli impiegati devono pure pubblicizzare la linea telefonica di Poste Italiane. Son diventati venditori. Passa il tempo, spero nel negretto, che dica al vigile urbano di non darmi la multa, che lo impietosisca in qualche modo, magari facendogli il saluto al sole tipico dell’Africa. Divento nervoso, esco a fumare una sigaretta, vado al bar vicino, mi bevo un caffè. Torno. E’ passato il mio turno. Rifaccio il bigliettino e sto lì, a fissare persone, a immaginarmi che vita fanno. A mezzogiorno e mezzo ho in mano la raccomandata. C’è dentro un pezzettino di carta, il messo notificatore dalla firma illeggibile mi spiega “che l’atto numero tal dei tali è stato consegnato il 5 maggio 2015 in busta e chiusa sigillata al sig. Vismara che si è qualificato come familiare convivente che ha firmato quale consegnatario”.
Sgrano gli occhi: tutta sta fatica per farmi sapere che martedì hanno dato un documento a mia moglie, appunto il signor Vismara? Mi viene da piangere dal nervoso. Poi da ridere. L’Italia mi regala sempre grandi emozioni. Per questo la amo. Immaginatevi vivere in Germania, in mezzo ai tedeschi che sono normali, non contorti come noi. Deve essere una noia mortale.