Anche io sono incazzato come una biscia che andiamo a grandi passi verso il secondo lockdown in pochi mesi, col casino che mi comporta soprattutto per quanto riguarda il mio lavoro, quello di direttore di un giornale che si chiama Bergamo & Sport e che si occupa di calcio provinciale, di nuovo fermo, chissà per quanto.
Poi c’è il Vestaglietta, il mio libro, che esce martedì nelle edicole e nelle librerie e che è anche bellino, amabile perché ci sono dentro mille pensierini carini per migliorare il mondo, ma non è che io sia Saviano o la giovane reincarnazione del defunto maestro Camilleri, dico con quella magnifica scrittura che hanno loro lì che vendono milioni di copie, quindi ne avrei piazzato qualcuno se mi fossi messo di buzzo buono a fare presentazioni nelle biblioteche, nei teatri e nei peggiori bar di Caracas, ovviamente intendo i localacci di Bergamo. Ma non si può.
E di secondo lavoro faccio il cantautore, va detto parecchio male, per far limonare gente a caso, tipo il vecchio con la fighetta, la vecchia col cubano palestrato, il vecchio col cubano palestrato, la fighetta con la vecchia, sostanzialmente senza uno straccio di pubblico che non siano tre miei amici, Ermallo, Greta e Pablo, e i quattro già citati nel gioco delle coppie. In ultimo, non certo per importanza, sono un calciatore perché di costituzione ho preso da mio nonno Cesarino, genere tarchiato, uomo toro, di quelli che senza muoversi diventano dei maialoni belli grossi, da magnare col rosmarino e un centinaio di soci in una costinata di un certo livello alla casa degli alpini di Valgreghentino.
In una situazione del genere sto come tutti, che a qualsiasi politico tirerei un cartone in faccia, a Fontana, ma pure a Zingaretti, a Conte, a De Luca, a Di Maio (sempre che ci sia ancora perché io non lo vedo in tv e non lo sento parlare da almeno sei settimane) e a Casalino. Del resto come non prendersela con una classe politica che ci ha chiusi in casa con la promessa che nel frattempo avrebbe fatto quattro cosine facili facili, recuperare i vaccini antinfluenzali, tracciare contagi e contagiati, darci tamponi a go go, potenziare la sanità pubblica assumendo medici e infermieri, e non l’ha fatto? In compenso i nostri rappresentanti ci hanno giustamente menato il torrone per il nostro ufficio in sicurezza (“e prova sta febbre”, Monica, ormai ottocentosessanta volte al giorno), il calcio in tranquillità, con le visite dalla dottoressa, una sorta di mamma, e il protocollo per i nostri club da migliaia di euro, i bar e i ristoranti col plexiglass, le scuole coi banchi a tre metri l’uno dall’altro e gli studenti scaglionati. Abbiamo investito in tempo e denaro, l’abbiamo fatto tutti. Per un beato cazzo, che siamo punto a capo.
Ma non scendo in strada a bruciare le maghine e manco metto mi piace a chi lo fa. E neppure tolgo la mascherina come fanno i negazionisti. Perché c’è un quesito di fondo a cui ho risposto da tempo, tra la probabile muerte della moglie di Marco, che non è il mio famoso collega, ma un altro caro amico, una donna che ha una malattia immunodeficiente, e la mia libertà, il mio lavoro e le mie passioni, ho scelto che sopravviva lei. Per farci un bicchiere insieme quando sta merda sarà finalmente finita per sempre.
Matteo Bonfanti