Era ieri, ero in tribuna ed ero silenzioso, felice e leggero, era mattina, ero assonnato perché è un momento della giornata che non frequento mai se non in casi eccezionali come le partite della squadra di mio figlio Zeno, non il più bravo, ma di certo il più bellino di tutti e il più poetico, quello della canzone, “il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette, quest’altro anno giocherà con la maglia numero sette”. C’era il sole, c’erano ventidue giovani nel fiore degli anni che stavano dimostrando al mondo che cos’è l’amor, per la vita e per il fubal, che poi per me sono la stessa cosa. Erano l’immagine della forza e della felicità: correvano su ogni pallone, davano e si davano buttando nella sfida le loro gocce di sudore, volavano in quell’angolo di mare che è un prato verde con una porta grande e grossa dove poter segnare. Sono stato quell’adolescente e non parlo a caso. Una domenica ho fatto sei gol a Colico in un sette a uno per la Virtus Valmadrera segnando ogni volta grazie ai miei compagni. I passaggi filtranti, gli abbracci, i cori negli spogliatoi, una festa, lo è sempre per chi gioca, persino quando si perde, nell’unica rabbia sana che conosco perché si trasforma nella voglia di capire gli errori fatti per migliorare e non farli più.
Ma capita che dei padri sfigati decidano di rovinare tutto. C’ero, era questa mattina, sono testimone di questo drammatico incidente. Lui, brutto e vecchio, con la voce triturata dalle sigarette. Dal primo minuto: “Che cazzo fai? Passala a destra… No, non si può giocare così… Vai avanti, vai indietro, vai su e giù. Non metterla in mezzo. Ma come si fa a fare entrare il sedici (col sedici davanti, ndr)? Il mister non capisce un cazzo… Tutti in avanti”. Per l’intera partita. L’altro, accanto a lui, capelli grigi e ingellati, probabilmente pippato, gridando manco fosse una campana della chiesa di San Paolo: “Ti provoca quel cretino… Fagliela vedere… Dimostragli che hai i coglioni. Non fare la fighetta”. Tra la vergogna e l’imbarazzo, soprattutto dei due figli che non si meritano genitori del genere, padri che rubano spazio ai loro ragazzi perché fanno i protagonisti di uno spettacolo che non è il loro, ma che li vede solo spettatori. Non si parla a teatro. Si sta muti, si guarda e si ascolta. Al massimo si applaude.
Ora io ho quarantacinque anni e gioco ancora, a sette, il martedì e il giovedì a Orio. Sono bravino come all’epoca, faccio ogni volta un mucchio di gol. Non parlo mai perché da bimbino mi hanno insegnato che il pallone è una festa e come tale non deve avere dei rompicoglioni tra le palle. E’ la prima cosa che mi hanno detto quando mi hanno preso nelle giovanili del Lecco, allora in Serie C.
E dopo sette interventi alle ginocchia e con l’età che avanza, sono per lo più un giornalista sportivo, il direttore di Bergamo & Sport, e lancio una proposta ai miei presidenti, uomini di cui spesso sono innamorato e che la pensano come me perché anche loro hanno giocato. Diamo il cartellino rosso ai genitori maleducati: spacchi la minchia ai ragazzi, fuori quattro giornate, aizzi la rissa con le tue urla, otto domeniche senza partite. Poi, se ti comporti bene e non ce la rovini da lontano, ragioniamo se farti tornare. Perché il calcio, soprattutto quello giovanile, è una festa. E su questo non dev’esserci nessuna discussione. Nessun grido. Nessuna parola, ma proprio nessuna.
Ps – Alla partita ho incontrato bomber Corna, ora al Fontanella, un campione, come me a vedere il suo ragazzo. Parlavamo di questo, il fubal, il nostro amore, sconvolti entrambi dai due genitori già descritti e che sono semplicemente un debito, di cui fare subito a meno. Perché non sanno cosa sia quella cosa meravigliosa che è il pallone.
Matteo Bonfanti