Come il paradiso, che, forse, è sentire il proprio cuore battere leggero e allo stesso ritmo dei mille altri che si trova attorno, come tornare improvvisamente bambino, con le ali, libero di cantare e di saltare, come non avere la vergogna, come quando si ride perché ci si abbraccia forte e manco ci si conosce, come il tempo con le lancette che corrono perché non si vorrebbe essere altrove, come un giorno di festa dopo dieci anni di lavoro, come la birra bionda, come il vino calepino, come ritrovarsi per caso a festeggiare il Capodanno in Città Alta, come lo spogliatoio della squadra del mio barrio prima di una partita importantissima, come certe notti, come scoprire sulla pelle che siamo davvero tutti uguali, gli uomini e le donne, quelli alti alti e quelli bassi, i magri e i ciccioni, l’operaio, l’ingegnere e il premio Nobel. Come in una grande famiglia, la mia, le domeniche a tavola a Valgreghentino.
E allora, intorno al sessantesimo, mi sono girato e mi sono messo a chiacchierare di Ilicic con i due tifosi che stavano dietro di me, tre frasi sullo sloveno e abbiamo iniziato a raccontarci le nostre esistenze. E all’improvviso ho capito perché Flavio, Bruno, Guido e Massimo, i miei amici, vanno sempre lì, solo lì, ormai da trent’anni, in quella parte di stadio unica, dove si sta in piedi e stretti stretti. Vanno lì, solo lì, perché in quest’epoca di individualismo, lì, solo lì, non c’è il solito Io. C’è, finalmente, uno splendido Noi.
Così ieri sera, all’Atalanta con i miei due meravigliosi figliocci di questi giorni, uno, Zeno, che ce l’ho accanto da quando è nato, ormai tredici anni fa, l’altro, Meo, meraviglioso ragazzo in vacanza da noi per dieci giorni. Ho più di quarant’anni e al Gewiss Stadium, soprattutto quando si chiamava Atleti Azzurri d’Italia, ci sono stato cento volte, in tribuna stampa perché dovevo raccontare la partita. Mai, prima di ieri, ero stato in Curva Nord. Ed è davvero un’altra cosa, un’esperienza indimenticabile, che, credo, porti immediatamente alla dipendenza, una delle poche che non fa male, anzi che la migliora.
Matteo Bonfanti
Nella foto: Ze e Meo, compagni di viaggio ieri all’Atalanta