Mio zio Beppe, famoso mediano del calcio provinciale lariano nei favolosi Settanta, una sera di tanti anni fa mi raccontava l’apice vissuto in carriera, una stagione dove giocava qualche metro più avanti e vedeva un sacco la porta. Il suo rammarico? Quattordici pali colpiti, senza fare manco un gol. Fosse sempre entrata la palla, magari sarebbe arrivata la chiamata del Lecco e la sua carriera avrebbe preso tutt’altra piega.
La breve storia famigliare perché sia ieri che settimana scorsa ho visto l’Atalanta e davanti alla televisione ho pensato che il pallone è tattica, credo, fiato e piedi, ma un sacco anche fortuna. Diversamente dagli altri cronisti bergamaschi, che vedono la crisi nerazzurra dietro l’angolo, sono convinto che la sola cosa che manchi ora alla formazione del Gasp sia un pizzico di buona sorte. Il gruppo è buono e come nelle annate gloriose appena passate gioca un calcio avvolgente, alla pari con le big del campionato. La sola differenza è che agli altri in questo momento dice bene, ai bergamaschi no. Prendiamo l’Inter, a Ferrara non meritava di vincere, i colpi di culo, soprattutto la prima rete di Icardi, ma anche il rigore sbagliato da Antenucci, hanno trasformato in un battito di ciglia quella che poteva essere la classica giornata no in una tranquilla domenica di gloria.
Diametralmente opposto quanto capitato all’Atalanta al Comunale: il legno colpito dal Papu, quello centrato di testa da Zapata, la rete fortunosa di Tonelli in un momento, quello verso la fine delle ostilità, dove farlo è essere baciati dalla dea bendata mentre prenderlo è il massimo della sfiga.
Non sono d’accordo con le analisi fatte più o meno all’unisono, con relative bocciature di Freuler, Pasalic, Gomez e Zapata, apparsi ai miei occhi in buona forma, ispirati, e, soprattutto, dentro fino al collo al solito sistema di gioco dominante proprio della filosofia gasperiniana. Così è stato con la Samp, così è stato a Firenze, un’altra domenica di ordinaria sfortuna, decisa da una colossale svista arbitrale, così è stato a Copenaghen, dove c’era una sola squadra in campo, appunto quella nerazzurra.
Diceva Gattuso ai microfoni di Sky dopo i tre pareggi consecutivi di un Milan bello e pimpante: “Prima o poi ci girerà” e il terzo successo in altrettante partite gli ha dato ragione. Succederà anche all’Atalanta, che, ripeto, nonostante la classifica non vedo per nulla in crisi di gioco. Dopo quindici anni passati ad occuparmi della famosa ninfa di Zingonia noto però due possibili problemi uguali uguali a quelli avuti in passato sotto una diversa gestione sia tecnica che manageriale. Nel pallone  quando i giornalisti iniziano a gridare al lupo al lupo, il lupo spesso arriva davvero a mangiarsi l’entusiasmo e a rendere il cielo grigio proprio come in quella scena indimenticabile della Storia Infinita, un film che adoro. Il secondo ostacolo alla terza stagione di Gasperini a Bergamo è avere una rosa tanto competitiva e tanto abbondante per pochi impegni, in pratica la sola Serie A. Si rischia di scontentare tutti, e quando i giocatori non sono felici, non ne imbroccano più una.
Occorre, a gennaio, fare scelte nette: o Zapata o Barrow, uno dei due è di troppo e incasina le prestazioni dell’altro. Se si sceglie l’ex sampdoriano, il baby fenomeno fa le valigie e va a esplodere altrove, tenerlo in panchina per giocare piccoli scampi fa perdere a lui un anno importantissimo nel momento fondamentale della sua carriera e al presidente Percassi un sacco di denari di plusvalenza. Identico il discorso da fare con i due calciatori che più amo, Gomez e Rigoni, entrambi fortissimi, ma dal ruolo speculare, uno deve essere investito dalla totale fiducia nerazzurra, l’altro salutare la piazza.
Nell’analisi resta la vicenda Bocia, la marcia ultrà. Non me ne voglia Claudio, a cui ho sempre riconosciuto la genialità di essersi cucito addosso un ruolo che prima a Bergamo non c’era, ma con tutti i problemi che abbiamo in Italia non si fa una manifestazione per lui.
Matteo Bonfanti