Il Bello, il Tone e il Vecio. Una rivisitazione del western alla Sergio Leone in salsa nerazzurra, tanto per rendere meno insipido un campionato da brodetto. Cominciando a interrogarsi su quel che sarà e su chi è di troppo, perché la scienza del management cara all’attuale gestione impone una programmazione in tempi rapidi. L’arrivederci dell’Atalanta al suo pubblico proietta alla ribalta il protagonista di mille battaglie prossimo a un posto dietro la scrivania, il padre padrone con diritto di vita e di morte sulla creatura pallonara per cui Bergamo stravede, e infine lui, l’Edy da Lucinico, uno che con quattro decadi di panchina sul gobbone potrebbe fregarsene e invece al “patti chiari, amicizia lunga” ci tiene eccome.
A Percassi spetta l’ultima parola, e stavolta con l’affaire-stadio ai titoli di coda non c’è da menare il can per l’aia. Caduta l’unica e l’ultima scusa per non azzardarsi a compiere quel passettino in più, bisogna proporre qualcosa di meglio, da sognatori con i piedi per terra ma senza più calzature col tacco piombato. L’uomo che appende gli scarpini al chiodo e quello in sella nell’annata e mezza da tregenda meritano rispetto. Il Paolo da Sarnico perché, congedandosi con la primizia del gol in serie A nella città che l’ha eletto ad eroe dopo la rovinosa caduta dal piedistallo di Cristiano Doni, dopo ventotto anni di militanza fin dai Pulcini, da esponente autentico e genuino di una terra abituata a fare legna e mattoni non si accontenterebbe mai di reggere le grucce nel vestibolo: in un organigramma secondo ruoli e competenze, uno del suo calibro deve stare nella stanza dei bottoni, occupandosi di questioni di campo, di calciatori (in erba o meno) e di mondo Atalanta, non di moine e salamelecchi da salotto. Il secondo perché ha dovuto fare di necessità virtù, ereditando prima un gruppo sfibrato dal Colantuono atto secondo ancora più sfibrato e facendo poi i conti con la politica societaria in tema di plusvalenze, capace di invecchiargli di colpo la rosa depauperandola tecnicamente. Inutile tornarci su, sono cose risapute. Due salvezze servivano e sono puntualmente arrivate, nonostante l’affanno.
Che il probabilissimo divorzio sia figlio di un feeling vissuto sul filo del rasoio dei risultati e di un certo malumore per l’avantindré dallo scorrevole del calciomercato, più che di scartoffie o conciliaboli a bocce ferme, lo dimostrano le parole del presidente. Testuali: con Reja ci siederemo a un tavolo entro una decina di giorni. Eh no, se hai le idee chiare son decisioni da prendere subito, perché le valutazioni del caso dovresti già averle fatte da un bel po’. Una frase del genere è da separati in casa. Da notare che l’allenatore stesso, nel bel mezzo del famoso digiuno forzato (quattordici senza bottino pieno, un record), aveva offerto la propria testa ai piani alti di Zingonia. Mettiamoci anche i corsi e i ricorsi della storia: il Percassi atto primo, dopo aver sfiorato un piazzamento Uefa nella stagione 1992/1993 grazie a un certo Marcello Lippi, per il malvezzo di prendere tempo si lasciò sfuggire l’allora rampante viareggino finendo per far calare il sipario su se stesso. Squadra a Guidolin, all’epoca convinto di essere il nuovo Liedholm a velocità di esecuzione quadrupla o qualcosa del genere, quindi la crisi di rigetto dello spogliatoio, il tandem in corsa Valdinoci-Prandelli, la B e il pacchetto azionario di maggioranza in mano a Ivan Ruggeri. Un bergamasco di quelli testardi e contrari ai compromessi, rimpianto da un Bellini in lacrime nel giro d’onore domenicale all’”Atleti Azzurri d’Italia”, che di preferenza lanciava in prima squadra mister (Vavassori) e giocatori (i gemelli Zenoni, Gianpaolo medesimo, Pelizzoli, Pazzini, Padoin, Montolivo) direttamente dal vivaio. Oggi non esiste più niente del genere. Eppure nella Primavera di Valter Bonacina, alle Final Eight di categoria, ci sono Tulissi, Mazzocchi, Kresic. Il fantasista mancino, il centravanti altruista che tiene su la squadra, il regista difensivo del futuro. Forse è il momento di rinverdire i fasti di Ivan. Nostrani, ruspanti e talora arrischiati, visto che in cadetteria ci finì quattro volte in tre lustri. Ma il calcio, oltre l’arido calcolo e un’oculata visione manageriale, continua a essere una questione di cuore, di carne e di sangue. Tra il Brembo e il Serio, poi.
Simone Fornoni