Babbino mio, dove sei? Scusa se non ti chiamo in questo giorno così importante, ma l’ho fatto ieri per augurarti buona Pasqua e avevamo intorno solo frasi mozzate, quelle di quando ci manchiamo tanto tanto. “Come va?”, “Dai, bene, c’è il sole e sono qui in giardino, ti leggo sempre”, “Anche io le tue poesie, l’ultima era bellissima”, “Ti passo Angela, che ti vuole salutare”, “Ci sta, un bacino”, “Ciao, Matti, ricordati di domani, ti voglio bene”, “Pure io, papi”.
Per noi che siamo stati così tanto con gli occhi negli occhi, mano nella mano in mille posti, abbracciati stretti stretti in Falghera o a Barcellona, il telefono è proprio l’ultima ancora. Piuttosto scriverti, oggi che ne fai settanta, e vorrei essere lì con te a bermi un bicchiere e a ricordare tutte le volte che le stelle ci hanno sorpreso insieme. Non fossimo stati agli arresti, sarei arrivato. Con l’abituale oretta di ritardo ti avrei portato al ristorantino che ti piace, quello lungo il lago, risotto al persico, poi gli agoni e le arborelle, la tua grappa bianca, il mio limoncello, un altro giro (“e tranquillo che non lo dico a Angela”), immersi in mille e passa chiacchiere, per concludere la nostra seratina con la mia solita finta corsa alla cassa, “Matti, piantala lì”, “Babbo, solo stavolta…”, “No, non esiste che un figlio si metta a pagare la cena a suo padre”.
Di tante cose che ti devo, le parole che sono il mio lavoro, le canzoni di Vecchioni, il Milan e gli occhi azzurri, promettimi che una volta mi lascerai fare, che quaranta euro nel portafoglio da qualche mese ce li ho sempre, pure adesso, che sono appena stato dal tabaccaio, per via di questo viziaccio che tu da un sacco non hai più e che io mi sono messo addosso da ragazzo per somigliarti un po’.
Smetterò, te lo prometto, tra un paio di decenni, all’età che hai smesso tu. Ma oggi le sigarette non sono l’argomento, solo dirti che sei il padre migliore che conosco, ma per scoprirlo ho dovuto provare a esserlo anch’io. Come te con me, io con Vinicio e Zeno in cortile a giocare a pallone tenendo il conto dei gol fatti e di quelli subiti sotto il sole di aprile, come te con me, io e loro a costruire con la corteccia le barchette da fare andare sul fiume, come te con me una casa aperta a tutti i loro amici, come te con me alla partita, la macchina parcheggiata e la lunga passeggiata che porta allo stadio, come te con me le canzoni (le mitiche compilations “Varie”) per addormentarci in un lettone tale e quale a una barca di pirati.
Finita questa maledetta sfiga, vi porto a Poira, tu, Vinicio e Zeno, che voglio che gli insegni ogni tuo gioco. Intanto ci penso io, che così, almeno per me, “non è lontano questo lontano”.

Matteo Bonfanti