Parlava Draghi alla Trucca e mi passavano le immagini di quest’anno e mi accorgevo di quanti sentimenti ho vissuto sulla mia pelle in questi mesi che passeranno tragicamente alla storia.
Appena iniziata la pandemia, vivevo costantemente nella paura. Si rincorrevano le sirene mentre eravamo qui in redazione, barricati, nel niente che c’era fuori dal nostro ufficio. Avevo ogni giorno l’ansia nello stomaco, ma non per me, soprattutto per i miei genitori, a quaranta e passa chilometri, che non potevo vedere né toccare per sapere bene bene come se la stessero passando. Poi mi è saltata addosso la curiosità. Mi ha preso la voglia di scoprire perché qui, dico proprio qui, nella mia amata città, la sola che mi ha accolto, morisse tanta gente, ad ogni ora, continuamente. E mi sono messo a cercare i motivi e li ho trovati tra le carte lasciate per strada dalla nostra classe dirigente, tra i loro provvedimenti, su tutti l’idea di smontare pezzo per pezzo la sanità pubblica, senza pensare che un giorno sarebbe arrivato un conto salatissimo, da far pagare per intero a ognuno di noi.
In estate era solo pensare a come tornare libero, in viaggio verso l’Adriatico, il mio mare, verso le sue feste in spiaggia, anche un po’ per dimenticare la mia città nel lockdown, la sua solitudine e la voce dell’altoparlante della Protezione Civile tutta intorno. A settembre ero nella totale speranza che le nostre vite stessero tornando uguali a prima, quando stavamo bene. Sentivo l’immenso desiderio di riprendere il mio lavoro, quello di raccontare il calcio provinciale che stava finalmente ripartendo. Ma era un’illusione, perché un secondo dopo era di nuovo tutto sospeso fino a data da destinarsi. Pur capendo i motivi, ho iniziato a vivere una sorta di fallimento, perché i miei sacrifici, quelli dei miei amici e quelli dei miei famigliari non avevano portato il mio Paese fuori da un’emergenza sanitaria che ha mille e passa indiziati, ma mai un vero colpevole.
Adesso siamo nell’epoca dei vaccini. E dovrei essere nella speranza, invece la cosa che sento dentro è la rassegnazione, che mi aspettano altri mesi senza il mio lavoro, tra mille e passa difficoltà per vedere chi amo, ma che vive lontano da qui, nell’impossibilità di realizzare i miei sogni, che sono la mia normalità e che iniziano a mancarmi come il pane. Ieri era il bisogno di scrivere della Gandinese in Coppa Lombardia per poi farmi una cenetta dalla Giuliana col Gigi, oggi è la voglia di fare un bel partitone di calcio a Orio con Flavio, Gippo, Rude, Raul, Pirmin e il Genio, domani so che avrò tra le mani il desiderio di un interminabile aperitivo a sparare cazzate al Blu Puro sull’Atalanta e i suoi misteri, magari con Ermallo, Spatti e Gre.
Sono cotto, questo è quello che sento nel primo giorno della memoria, con il numero dei morti che è pressoché identico a quello del 18 marzo di un anno fa. E non mi paragono a chi ha avuto dei lutti in famiglia, persone che appena sarà possibile dovremo imparare a coccolare fino alla fine dei nostri giorni. Eppure penso che anche io sono scioccato, stanco e perduto, a volte fuori di cranio, soprattutto per via dell’incertezza della politica, che non ha mai una strategia chiara, netta e definita, ma sempre e solo la falsa promessa che il sacrificio che ci richiedono dall’alto sia davvero l’ultimo.
Siamo vittime, io e i miei figli, che hanno perso d’un colpo la loro vita. Lo sono le mamme italiane, i nonni, gli insegnanti, lo è la Giuliana, tutti i ristoratori, gli albergatori, ogni barista, gran parte dei negozianti e degli sportivi. Lo sono i tifosi, gli operai, i nuovi disoccupati, i musicisti, i teatranti, gli artisti di strada, chi ci accoglie nei cinema, chi insegna ai nostri ragazzi il calcio, il basket e il rugby, chi li fa ballare. Lo siamo in tanti, milioni di persone lasciate a se stesse, dimenticate mentre crescono a dismisura le difficoltà economiche a causa di uno stato d’emergenza infinito.
Solo questo, alla prossima celebrazione ricordatevi anche di noi, cittadini stremati da questo tempo sospeso, ogni volta privo di certezze, infelici perché nell’attesa di una serenità sempre promessa, ma che ogni volta tarda ad arrivare.
Matteo Bonfanti
Foto tratta da La Stampa