Come sempre ho lasciato per ultimo la cosa che per me di questa giornata è la più importante e sono cinque minuti passati questo pomeriggio nel centro della mia meravigliosa città, che si chiama Bergamo ed è un sacco accogliente, avanti e piena zeppa di speranza. Sono scappato dal lavoro, che era tantissimissimo e in più c’era Marco di ritorno dalla malatissima Cina e poi stava giocando il mio Milan, e l’ho fatto per esserci perché dovevo, ma non solo io, la mia stirpe, soprattutto i miei figli, Vinicio e Zeno. E ho passato questi trecento secondi di pausa dalla mia domenica calcistica beatamente, guardando due bambini, un maschio, bello e biondo come la birra, che conosco e che di nome fa Mattias, e una femmina, di cui non so nulla, solo le calzine di nylon, la barba di suo babbo, il viso dolcissimo, il sorriso contagioso, il corpicino aggraziato ed esile, l’immensa forza della fragilità tutta intorno, qualcosa che mi rapisce perché va maneggiata come le coppe di champagne, con estrema cura. Uno accanto all’altra ripetevano, sorridendo, le parole di un centinaio di donne di mille età diverse che avevano appena finito la loro esibizione, fatta dei pensieri di questo nostro sventurato tempo. Le dico a memoria, potrebbero anche essere sbagliate, ma il senso è quello: “Lo stupratore sei tu, sono i poliziotti, sono i giudici, sono i politici, lo Stato. E non è colpa mia, né dov’ero, né cosa ho indossato”. E’ un canto del Cile, che sta a mille e più chilometri, ma è come qui, che chi amiamo follemente perché ci riempie la vita, incasinandocela, se si stanca di noi, viene ammazzata come una bestia perché per cultura siamo privi della gratitudine degli anni, dell’amore, del coraggio, del cuore, dell’idea dell’universo, della bellezza, della figa, delle unghie dipinte di rosso, degli sguardi quando sono occhi negli occhi, della commozione. Davanti alla solitudine noi uomini siamo mossi solo da quella cosa triste, solitaria e finale che è il senso del possesso. La loro marcia mi ha toccato, mi ha ricordato una bellissima ballata di Taylor Swift, cantautrice americana country, che nel suo ultimo dolcissimo singolo parla solo ai giovani, la speranza, chiedendogli una cosa: nel loro mondo nessuno mai dovrà permettersi una qualsiasi violenza su una qualsiasi donna.
Non sono migliore degli altri uomini, in più faccio il giornalista, lavoro che mi rende ancora più puttana, uno zingaro incredibilmente incapace nei rapporti, ma grazie a chi amo sono nel viaggio in cui tutti noi dobbiamo essere ora e sempre. Proprio come me, le donne che ho avuto accanto, mi hanno tradito, mentito e abbandonato, ma pure mi hanno regalato i miei giorni migliori, il sole, il mare e il vento dell’estate, la metà esatta dei sogni che ho, parecchi pensieri celesti e rosa che per via del mio genere non potrei avere, ma che ho imparato e mi piacciono e ho fatto miei. E ci stanno i miei musi, le mie incazzature, i miei silenzi, le mie fughe, ma pure le mie poesie, nove rose prese trattando sul prezzo col pakistano al semaforo per Orio, l’allegria all’improvviso che mi viene dopo una serata passata addosso, le carezze che so dare, gli infiniti massaggi alla schiena e al sedere, le interminabili chiacchiere la notte, il sudore, i baci, il profumo del rossetto in faccia e sul collo. Mai le mie botte, perché sono più forte e non sarebbe più questo gioco, divertente e sofferente, vivo, il fantastico Mind Games che racconta John Lennon in uno dei suoi capolavori musicali. Sarebbe solo un incubo, senza fine, con uno squallido vincitore, sconfitto dalla vita ancora prima di iniziare. Sarebbe la morte.
Ringrazio le donne che oggi hanno manifestato nella mia meravigliosa città, che si chiama Bergamo ed è piena di speranza. Per merito loro, Mattias, i miei figli, la bellissima bimbetta con le calze di nylon, sono su quella strada, l’unica possibile perché è la sola che si deve percorrere per giocare questa fantastica partita che accade quando una donna incontra un uomo.

Matteo Bonfanti

Il video delle donne bergamasche contro la violenza sulle donne