Undici giorni di ricovero, venticinque di isolamento e un calvario che, protrattosi dall’8 marzo scorso, ha lasciato strada al sollievo soltanto domenica scorsa. Se è vero che negli ultimi due mesi gli ospedali, intesi come luogo facilmente esposto al contagio da Covid-19, sono finiti nell’occhio del ciclone, la storia di Bruno Piccinelli, diesse de La Torre nonché figura ultracelebrata della scena dilettantistica, profuma primariamente del lieto fine, procurato, oltre che dalla buona sorte, dalla competenza e dall’organizzazione. Lungi dal raggiungere conclusioni affrettate, tanto più con un quadro che non smette di risultare fosco, sia per quanto concerne le cause sia per la lettura degli scenari che verranno, festeggiamo la notizia per quella che è: uno sprazzo di luce, un’autentica boccata di ossigeno, nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria che, oltre a non conoscere precedenti, non smette di seminare morte e dolore. Nella storia di Piccinelli, non poteva essere tutto rose e fiori ma la vividezza di un uomo perbene, abituato a fare del calcio il veicolo privilegiato per rapporti umani schietti, equilibrati e appassionati, risalta ancor di più se rapportata al concomitante dramma scaturito tutt’intorno. Madri e padri di famiglia, che dalla vita avevano ancora tanto da chiedere; uomini soli che dopo aver ricevuto conti salati dalla vita subiscono l’onta della morte anonima, lontana dai cuori e dai riflettori. Ma anche uomini abituati a fare dello sport e dell’allenamento i propri cavalli di battaglia, come nel caso di Ettore Consonni, preparatore dei portieri dell’Azzano Fiorente Grassobbio: oggi sta meglio, ma certo s’è l’è vista brutta. Difficile, allora, parlare di festa. Molto meglio pensare al sollievo, per una storia finita nel migliore dei modi, e al piacere che proverà l’intera scena dilettantistica nel ritrovare, riabbracciandolo, Bruno Piccinelli. Contattato telefonicamente, il “Picci” riavvolge il nastro, portando a galla le peripezie di un periodo alquanto complicato: “La quarantena prima, la quarantena dopo, mia moglie che in qualche modo si è ritrovata coinvolta e che non ha potuto far altro che restare chiusa in casa. Con me, ma anche lontano da me. Giorni interminabili, di isolamento, con la consapevolezza che tutto sommato stavo bene. Ma allo stesso tempo, realizzando che un vero protocollo di cura per questo virus non c’è. Ho capito che c’era qualcosa che non andava, perché mi sono ammalato appena dopo il vaccino antinfluenzale. C’era una febbre persistente, che nonostante i farmaci non accennava ad andare via. Allora ho deciso di consultarmi con la mia dottoressa, che da subito ha dimostrato grande scrupolo, guidandomi in un percorso che non è stato per niente facile. Quando abbiamo verificato, dopo alcuni giorni, che la febbre non spariva, c’è stato il ricovero. E credo che quella domenica notte, la prima notte che passai all’ospedale di Ponte San Pietro, me la porterò dietro per un bel po’. Arrivò a casa un’ambulanza proveniente da Brescia, ma il coordinamento era di Milano, e inizialmente non fu così chiaro cosa doveva succedere. Il personale dell’ambulanza non era apparso così convinto del ricovero, ma poi arrivò un input chiaro dal telefono e fu così che venni ricoverato. Fui sottoposto a Tac, a tampone, in pratica quella notte mi fecero di tutto ma, soprattutto, non sapevano dove mettermi. Non a caso, il primario di guardia la prima sera aveva storto il naso, poi hanno probabilmente scelto di navigare a vista e così sono rimasto due giorni in un corridoio dell’ospedale, attaccato all’ossigeno, insieme ad altri pazienti, finché un posto non è saltato fuori. Tensione e preoccupazione non sono mancate, è chiaro che in un ospedale conti di sentirti al sicuro perché c’è sempre qualcuno che può intervenire, ma erano i giorni in cui qualcosa di simile aveva riguardato persone che conoscevo bene, vicini di casa e anche amici, che oggi purtroppo non ci sono più”. Colpisce, in particolare, la drammatica vicenda che ha riguardato Gennaro Leardi, 52 anni, morto, da solo, nella propria abitazione di Pedrengo: “Eravamo vicini di casa. Lui era separato da tempo e aveva un incarico impiegatizio proprio presso l’ospedale di Alzano Lombardo, avendoci lavorato fino a inizio marzo. Poi è arrivata la positività da Coronavirus ed è morto lunedì 16 marzo, un giorno dopo il mio ricovero a Ponte. Aveva tutti i sintomi, eppure è morto da solo, senza aver nemmeno ricevuto una qualche chiamata che si sincerasse delle sue condizioni. Ci sono voluti i Vigili del Fuoco perché si venisse a scoprire il decesso. Quando, terminato il ricovero, sono tornato a casa e ho chiesto informazioni su Leardi, non appena ho appreso la notizia mi è caduto il mondo addosso. Se a me era andato tutto bene, a qualcun altro è andato tutto male. Col senno di poi, dico che tutti coloro che mi sono stati attorno le cose le sapevano. Ma non me le volevano dire, per non spaventarmi”. Ma non è finita, perché la storia di Jessica Barcella, 43 anni, sempre di Pedrengo, è se possibile ancor più straziante: “Questa è una malattia subdola, ho visto morire persone che non avevano niente, il cui quadro è però improvvisamente precipitato. La conoscevo indirettamente. E’ morta facendo avanti e indietro dall’ospedale di Seriate, la polmonite era emersa da subito, per quanto riguardante uno solo dei due polmoni. E’ stata ricoverata due giorni prima di me. E nel giro di tre giorni se ne è andata. Poteva capitare anche a me, che di anni ne ho un bel po’ di più. Nel mio caso, i valori di saturazione sono stati bassi, ma mai così critici e, dopo una decina di giorni di ospedale, sono potuto tornare a casa”. La quarantena a casa, dal 26 marzo al 20 aprile, con i due tamponi a certificare, finalmente, l’effettiva guarigione. I venticinque giorni di isolamento domestico sono valsi senz’altro da momento utile ai pensieri più disparati, in linea con uno stato d’animo in perenno bilico, tra sollievo e sgomento: “Era trapelata l’opportunità legata al “Winter Garden” di Grassobbio, dove peraltro avrei avuto modo di raggiungere Lucio Seghezzi, un altro che s’è l’è vista brutta. Al dunque però ho optato per il ritorno a casa, per somma gioia, si fa per dire, di mia moglie, che non aspettava altro che tornare in quarantena. Lontana da me, eppure impossibilitata a muoversi, per non incappare nei rischi legati al contagio. Diciamo che il tempo per riflettere non è mancato. E riflettendo ho preso il sole, con vista su Città Alta, perché dopo tutto, con i pochi spazi a disposizione, non mi restava che il terrazzo di casa. Ho pensato molto a Pedrengo e agli oltre 70 lutti che hanno colpito questo paese. Sono tanti, per una realtà di cinquemila anime. La stessa società calcistica ha registrato la scomparsa di Renato Giovanelli, storico accompagnatore delle squadre giovanili, oltre che presidente della sezione comunale della Federcaccia. E siamo ancora a chiederci se non è il caso di prolungare i tempi della quarantena, laddove i quattordici giorni non fossero sufficienti per passare dal tampone positivo al tampone negativo. Nell’attesa della miglior cura e di un vero e proprio protocollo da seguire, mi sento di dire che ce la fai se non hai o hai avuto altre malattie. Io ormai vado per i 73, ma mi posso dire fortunato nel non aver mai avuto grossi di guai di salute. Ai tempi ci fu un’operazione alle vene, eseguita proprio a Ponte San Pietro. Devo dire che nonostante qualche scetticismo iniziale in ospedale mi sono trovato bene, mi sono sentito tutelato. E poi c’è la mia dottoressa, figlia del grande Morlacchi (Fabrizio Morlacchi, professionista a cavallo degli Anni Ottanta, con le maglie di Brembillese e Albinese, n.d.r.) che mi ha seguito in tutto e per tutto. E poi i verdetti dei tamponi, ottenuti in maniera ottimale, tramite supporto informatico, e con tempistiche tutto sommato accettabili. Ora però, oltre a scongiurare nuove ondate epidemiche, dobbiamo considerare la possibilità di un’altra ricaduta, forse ancor più temibile, quella riguardante il dramma sociale cui andremo incontro. Nel concreto, il calcio non può trovare spazio e così come non invidio il Premier Conte, così non invidio Beppe Baretti. Quando la morsa del contagio calerà, arriveranno i problemi ed entrambi sono chiamati, nel rispettivo ambito, ad assumere provvedimenti straordinari e impopolari. E’ chiaro che prima di tutto viene la salute, sarebbe grave il contrario. Ma quando l’emergenza sarà passata, arriveranno beghe e problemi. Come è possibile arrivare a comporre i gironi, se nemmeno sappiamo quali e quante squadre riusciranno ad iscriversi? Di mezzo ci saranno i costi legati alle iscrizioni, alle utenze, ai trasporti, mentre le famiglie non potranno certo permettersi di indebitarsi, per iscrivere i figli alle scuole-calcio. La verità è che chi non deve prendere soluzioni, ce le ha sempre in tasca”.
Nikolas Semperboni