Sono le 19:28 e sono un po’ nervoso. Un po’ troppo direi. Continuo a passeggiare in su e in giù per la stanza violentandomi le mani, facendomi mille domande a cominciare dal vestiario se sia azzeccato e soprattutto all’altezza della serata. In ansia mi fermo e vado per la milionesima volta allo specchio, rispondendomi per la milionesima volta che ”è l’abito migliore che posseggo”, quello che avevo indosso alla cerimonia di nozze di mio fratello Luca. Mitica, tra le altre cose. “Ok” mi dico, controllo il nodo alla cravatta rimpiangendo che Alberto, l’altro mio fratello, non sia qui in carne ed ossa a sistemarlo siccome campione mondiale di nodo Windsor. Riprendo a passeggiare nervosamente fino a quando suona il campanello e il cuore cessa di battere assieme alla respirazione: è un attimo, forse ho mancato un battito o due ma nella mia testa l’apnea dura il tempo necessario per scendere e risalire dalla Fossa delle Marianne.
Tremante prendo la cornetta ma mi scivola dalle mami sia perché sono sudate sia perché maldestro di mio. La riprendo velocemente e dico “scendo subito” ma non odo nessuna risposta. Sto fatto mi mette ancor più ansia ed afferrato il cappotto scendo le scale come se vi fosse solo uno scivolo di quindici metri a separarmi dal suolo. Pigio più volte il bottoncino apertura porta e cancellino perché al primo, al secondo e al terzo colpo non l’ho centrato. Esco camminando velocemente ma cercando di non darlo a vedere e, per strada, parcheggiata davanti al mio indirizzo, vedo una lussuosissima Maserati Ghibli nuovo modello, blu notte con vetri oscurati ed un uomo ingessato con berrettino nero da autista che mi apre la porta posteriore invitandomi a salire. Ad occhio e croce credo che il suo abito valesse tre o quattro volte il mio. Comunque, prima di salire gli sorrido dicendogli “grazie” ma lui non fa una piega, nessuna inflessione del viso: pareva un automa. Richiude la porta la cui battuta genera un rumore sordo e una sensazione di sottovuoto all’interno dell’abitacolo che è di pregiata fattura, sicuramente realizzato su precise indicazioni dell’acquirente. Il “robot” si mette alla guida, avvia il motore e l’automobile, a dispetto della potenza trasmessa dal rombo ovattato, parte lentamente come se si trattasse di un mezzo a propulsione elettrica portandomi al mio destino. Tutto quel che è avvenuto in questi frangenti non mi ha per nulla aiutato a calmierare l’agitazione, infatti seguito a torturarmi le mani e, come per incanto, quasi vi fosse un sensore che rileva lo stato d’animo del passeggero, dalla console centrale emerge un tavolino con cinque o sei “cordiali” ed un bicchiere. Io non bevo liquori dal lontano 1984 quando a casa del mio amico Fabrizio presi una ciucca di portata colossale, vomitando persino roba che non avevo mai mangiato. Nonostante il trauma infantile, ne verso un po’ e lo assaggio al che, come fossi un perfetto ex alcolista, li trangugio tutti uno dietro l’altro con annesso sonoro di soddisfazione dopo ogni bevuta. Ripongo ordinatamente i “cordiali” svuotati sul vassoio, presumibilmente d’argento, passandomi poi una mano nei capelli per ridarmi un certo contegno dopodiché, così com’era apparso, il tavolino magicamente scompare nella console.
L’auto si ferma davanti a una monumentale inferriata, illuminando con i fari un cancello nero in cui è iscritta una “B” che, per logica associativa, è in oro massiccio. La lettera è l’iniziale della famiglia, difatti la reggia a cui sto per accedere è “Villa Bonfanti”, l’umile dimora del mio amato direttore, colui che invitandomi a cena mi ha tolto anni di vita misurabili in quintali di ansia. Il cancello si apre, l’auto si muove ed io ho l’impressione di entrare in un’altra dimensione. Sento però una fastidiosa sensazione di timore come se all’entrata avessi letto le stesse parole viste dal sommo poeta sull’ingresso dell’Inferno: “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”
La vettura percorre il viale fra alberi secolari illuminati da fari interrati donando all’ambiente un che di etereo. Sento la gola secca. Un altro “cordiale” non mi sarebbe dispiaciuto.
Nervoso quanto o forse più di prima, passo un dito nel collo della camicia sentendo mancare l’aria. D’improvviso l’auto si ferma ed io, grezzo ma anche in ansia, cerco di aprire la porta per scendere ma niente da fare: è chiusa. In quel momento mi accorgo che l’autista mi sta guardando dallo specchietto retrovisore raggelandomi il sangue. Al che mi blocco e, non ricordo se ne fui felice o meno, solo allora noto sia umano perché scuote la testa con sdegno. Subito dopo torna serio e metallico come per tutto il resto del tempo. L’androide scende, aggira la vettura, mi apre la portiera invitandomi a scendere, io gli dico “grazie” e lui, stupendomi, sussurrando con marcato accento inglese, mi dice “Harold, per servirla signore”. Quindi risale in vettura sparendo nel nulla, lasciandomi solo davanti all’entrata di quella villa imponente. D’un tratto le porte, forse in legno di rovere, si aprono come telecomandate generando un suono vasto quanto l’universo e cupo come la morte stessa. Io invio il comando alle mie gambe per varcare l’ingresso ma loro non sono dello stesso parere sicché non mi schiodo da quel punto. Capisco allora che una parte del mio cervello, la parte preponderante, è terrorizzata. In quel mentre, da dietro una delle due ante della porta, compare un maggiordomo che mi fa un sorriso di circostanza muovendo la bocca ma senza che alcun suono ne uscisse. Incredibile: sento il mio respiro, il battito del mio cuore ma non sento cosa lui mi sta dicendo. L’uomo si accorge dalla mia faccia che non ho inteso l’invito al che piega d’un poco la testa di lato, mi sorride accomodante pregandomi con un gesto di entrare. Stavolta le gambe rispondono ai comandi, entro e nel contempo sento cessare un suono acuto, intenso, che escludeva qualsiasi altro, al che odo in sottofondo una musica celestiale, archi e violini che finalmente mi aiutano un poco a dissipare la quantità industriale d’ansia che avevo in corpo.
“Il signore la sta aspettando in sala ricevimenti” mi dice il pinguino inchinandosi, mostrandomi la calvizie. Io annuisco ma sono sbalordito dalla stanza illuminata da un lampadario in vetro di Boemia, con quadri e arazzi appesi sui muri, un “modestissimo” ingresso che da solo vale quanto io non riuscirò mai a realizzare in due vite. Il maggiordomo mi invita a seguirlo ed in quel momento mi accorgo ve ne fosse un secondo dietro l’altra anta, il quale mi sorride prima di richiudere l’enorme porta d’ingresso ma a me, ripensandoci, sembrava più una smorfia di dolore. Cerco di deglutire ma la salivazione è azzerata. Seguo il pinguino numero uno ed accediamo ad una sala adiacente che in verità voleva essere un umile corridoio grande quanto casa mia e arredato… va beh, lascio stare. Finalmente, dopo aver aperto altre porte del valore di un mio rene, entriamo in un’enorme stanzone luminoso dal quale proveniva la musica che sentivo all’ingresso, in cui vi sono molte persone, altri invitati che discorrono amabilmente, alcuni ridendo, talaltri ascoltando, certi facendo gesti pomposi, altri ancora cazzeggiando. Noto che sui tavoli posti ai lati v’è ogni genere di pietanza e numerosi camerieri in giacca bianca e papillon nero pronti a servire bevande alcoliche eccetera.
Al mio ingresso la musica, operata dal vivo da artisti sistemati in un angolo, cessa di colpo e tutti si voltano a guardarmi. Io, per via dell’impatto di tutti quegli occhi puntati su di me, sento di aver mollato una scoreggia o qualcosa di simile perché avverto dell’umido nelle mutande. Quindi cerco di sorridere ma i muscoli facciali non mi assecondano. Cerco di deglutire ma l’apparato è riarso e niente potrebbe mai scendere lungo il condotto esofageo senza crearmi un’ostruzione mortale.
All’improvviso, sbucando da quella selva di anime, ecco comparire la fulgida figura del mio amato direttore con indosso una vestaglia color oro o, più presumibilmente, realizzata proprio in fili d’oro, il quale sembra accorrere in mio aiuto con un sorriso che avrebbe dissipato tutta la tristezza di questo mondo. Invece no, si ferma in mezzo alla sala con le braccia sollevate al cielo guardando i commensali uno ad uno, rimanendo in silenzio per secondi che paiono eterni.
“Direi che possiamo cominciare!” urla ad un tratto come fosse un indemoniato.
Gli orchestrali allora attaccano a suonare musica rock, credo fosse “A Little Less Conversation” di Elvis Presley, al che il mio direttore si apre la vestaglia mostrandosi vestito solo di un perizoma leopardato, iniziando a dimenarsi e a far traballare il “batacchio” che si ritrova in mezzo alle gambe. Io non faccio ancora in tempo a realizzare cosa stia accadendo che tre giovani donne in abiti succinti mi raggiungono strusciandosi su di me, infilando le mani dappertutto, disfacendomi il nodo alla cravatta che con tanta dovizia e disperazione m’ero annodato, il tutto mentre un cameriere arriva con un vassoio pieno di calici e mi serve da bere.
Beh… in definitiva, io non so cosa vi fosse in quel bicchiere, se spumante con dentro qualche allucinogeno o se, più semplicemente, abbiano fatto effetto tutto d’un colpo i sei “cordiali” che mi sono sparato in macchina, fatto sta che i miei ricordi finiscono poco dopo perché mi sono svegliato sfatto la mattina seguente, steso sul tappeto di casa a fianco del letto di casa mia. Rammento, sfregandomi la faccia, d’aver sentito un’incrostazione sulla guancia: probabilmente bava rinsecchita o qualcosa di simile. Rialzatomi a fatica ho visto la mia faccia devastata riflessa nello specchio accorgendomi in un secondo momento che sul vetro vi fosse una scritta fatta con del rossetto rosso:
“Sei un demonio” firmato Harold, l’autista.
Marcus Joseph Bax