Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, dice la sua sulla situazione lombarda, ospite di “Mattino 24” su Radio 24: “C’è il ragionevole sospetto che la Regione aggiusti i dati sul Coronavirus, in Lombardia abbiamo visto troppe stranezze sui dati in questi tre mesi di epidemia: persone dimesse che venivano comunicate come guarite andando così ad alimentare la fascia dei guariti. Poi abbiamo visto alternanze e ritardi nella comunicazione dei dati: poteva essere giustificato nella fase dell’emergenza, quando c’erano moltissimi contagi, ma molto meno ora, eppure i riconteggi sono molto più frequenti in questa fase 2 di quanto non lo fossero all’inizio. Come se ci fosse una sorta di necessità di mantenere sotto un certo livello quello che è il numero dei casi diagnosticati”. Prosegue Cartabellotta: “Probabilmente la Lombardia ha avuto un’enorme diffusione del contagio in una fase precedente al (cosiddetto, ndr) caso 1 di Codogno e le misure di lockdown dovevano essere più rigorose e restrittive. Avevamo chiesto la chiusura dell’intera Lombardia, un po’ come successo a Wuhan, perché era evidente che quel livello di esplosione del contagio non poteva che essere testimonianza di un virus che serpeggiava in maniera molto diffusa già da prima. Non è stato fatto nulla, non si sono chiuse le zone di Alzano e Nembro, e questo ha determinato tutto quello che è successo nella provincia di Bergamo, e poi abbiamo sempre visto una smania ossessiva di riaprire”.
“La nostra preoccupazione è che in questo momento la situazione lombarda sia quella che uscirà per ultima da questa tragedia. Se si chiude troppo tardi e si vuole riaprire troppo presto, e si combinano anche dei magheggi sui numeri, significa che la volontà politica non è quella di dominare l’epidemia ma è quella di ripartire al più presto con tutte le attività. Tutto questo non lascia tranquilli”.
“Inoltre – prosegue il presidente della fondazione Gimbe – non si sta effettuando un’attività di testing adeguato. E’ evidente che i casi sommersi sono tra le 10 e le 20 volte quelli esistenti e se non li vado a identificare, tracciare e isolare questi continuano a girare e contagiare. E’ come un cane che si morde la coda: da una parte non si vogliono fare troppi tamponi per evitare di comunicare troppi casi, dall’altra, non identificando questi casi, si alimenta il contagio tanto che, secondo la valutazione che pubblichiamo oggi, negli ultimi 23 giorni, dal 4 al 27 maggio, la Lombardia ha il 6% di tamponi diagnostici positivi, e sottolineo “diagnostici” perché se mettiamo al denominatore tutti i tamponi fatti (quelli ripetuti sullo stesso infetto, ndr) è chiaro che questa percentuale artificiosamente scende. La Liguria è al 5,8%, il Piemonte al 3,8%”.
“Le uniche due regioni che stanno facendo un’attività di testing massiccio – aggiunge Cartabellotta – sono la Valle d’Aosta e la provincia di Trento. Dal 4 maggio stanno facendo circa 4200 tamponi per 100mila abitanti. Un numero abbastanza consistente. Subito dopo ci sono Basilicata e Friuli che girano intorno a quota 2.200-2.300 mentre le regioni più colpite dall’epidemia, parlo di Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna, si attestano intorno ai 1.200-1.500 al giorno. Risulta evidente che questo si riflette anche sul numero dei casi diagnosticati. Poi ci sono alcune regioni del sud come Puglia, Sicilia e Campania, che hanno pochi casi ma è anche vero che fanno un numero di tamponi per 100mila abitanti molto basso: si colloca tra i 250 e gli 800. Il concetto è sempre lo stesso: per trovare il virus, devi cercarlo. Se non lo cerchi non è certo che non ci sia”.