Ci sono cinque cose bellissime che mi restano delle luci viste a San Siro. C’è, più di tutto, un calcio opposto a quello che si legge oggi sulle prime pagine dei giornali, quello dei tifosi avversari accoltellati, quello dei milionari del pallone che fanno l’ammutinamento per un giorno di ritiro. C’è che ieri sono stato bene bene, accolto come un re da quella grande famiglia che a volte è il football, tantissimo in questo periodo quando gioca l’Atalanta.
Va detto che i tifosi mi hanno coccolato fin da subito, sul treno, il Bergamo-Milano, due ragazzi del City, un maschio e una femmina intorno ai trent’anni, seduti proprio di fronte a me, pieni zeppi di voglia di conoscere il meraviglioso mondo che è diventato quello in nerazzurro. “What is Dea?”, e giù una valanga di sorrisi, “Papu Gomez love Bergamo, why?”. E io a sparare cazzate, col mio inglese al rallentatore, che spesso sembra più un dialetto siculo, insomma ogni volta parto anche abbastanza bene per poi finire a intendermela a gesti, con chi mi guarda a ridersela.
Poi sul metrò, la linea lilla, altri ultrà inglesi, questa volta vistosamente ubriachi, che mi scambiano per un giornalista irlandese e mi ripetono ossessivamente “San Siro?, San Siro?”. E io scavo tra i miei ricordi e tiro fuori il numero, una delle dieci parole che mi ricordo del mio viaggio studio fatto a Londra, sarà stato il 1995, dai Pigazzini, amici di mia mamma, una famiglia di psicologi, che già avevano capito di avere a che fare con una persona parecchio problematica. Soddisfatto, dico “Follow me” e la colorata banda biancazzurra mi viene dietro, col rumoraccio dei loro cori che contagia me e i tifosi della Dea, che partono con una sorta di divertentissimo controcanto, tirando fuori il capolavoro, “La me nona poerina la fa so la minestrina, la minestrina l’è mai a se, an se in aria tocc i de…”. Parte la gara a chi fa più casino, ma non è competitiva, e c’è nell’aria quella cosa che si chiama felicità e che fa stare tutti da dio.
Arrivo allo stadio di Milano ed è la scala del calcio, come ogni volta le luci del Meazza mi prendono l’anima e il cuore. Ci sono tantissimi bambini, chiacchierano coi genitori, soprattutto papà, ma pure tante mamme, mano nella mano. Ascolto i loro piccoli e meravigliosi discorsi, e per me è un’altra volta tornare a trent’anni fa, attaccato a mio babbo sulle salite che portano al secondo anello.
E sono ancora lì, dico proprio lì, ma stavolta in tribuna stampa, tra i giornalisti, che non ci avevo mai fatto caso, ma sono una via di mezzo tra una grande famiglia e una classe del liceo. C’è Giacomo, il preside, l’atalantologo da cui si va in processione a chiedere di un vecchissimissimo Samp-Atalanta, c’è Pietro, il temuto prof di matematica (e di statistiche), c’è Alberto, il tranquillo e dolcissimo insegnante di italiano, ci sono Fabio, Fabrizio e Simone, gli studenti che stanno al primo banco, computer e tablet, preparatissimi per il tema del giorno, ci sono Matteo e Andrea, quelli talentuosi che se la ridono dal fondo, c’è Romina, l’eterna ragazza, ci sono Mauro e Manni, che sono due stracarini, che ci tengono che tu stia bene, ti guardano, s’informano e ti chiedono come va.
La sfida passa alla velocità della luce perché ha mille emozioni in campo, ma pure fuori, sono i suoni e i colori della curva atalantina, che pare il vento quando è forte forte e scompiglia i capelli mettendoti addosso quella voglia nelle gambe, di saltare, fin su, alla voce, ed è impossibile trattenere il desiderio di cantare.
C’è questa cosa magica, che raramente ho provato, che mi è successa ieri mentre stava finendo la partita, c’è che c’è stato un momento in cui mi sono sentito un cuore che batteva con tantissimi altri cuori, all’unisono, dal Papu che stava in campo fino a Cesare, il miglior amico di mio figlio Zeno, che stava con suo papà e suo nonno nel primo anello, sotto la Sud.
Al triplice fischio mi sono fermato in tribuna, solo soletto, a mettere sul sito i pezzi dei nostri collaboratori, a prendere un po’ di freddo, mentre i colleghi correvano giù in sala stampa ad ascoltare le parole del Gasp, di Percassi e di Pasalic. L’ho fatto perché mi piaceva troppo quello che avevo dentro un attimo prima e volevo che si fermasse nel sangue, la cosa unica che è sentirsi tutti uguali, importanti alla stessa maniera, dentro questo sogno collettivo che si chiama Atalanta.
Questo articolo è già troppo lungo, quindi non racconterò il divertentissimo ritorno a casa, a chiacchierare con Fabio, Giacomo e Simone sulle prodezze di bomber Piccoli e su quello che un paio di settimane fa ha raccontato a me e a Marco un simpatico carabiniere, “vedrete che appena finito lo stadio, l’Atalanta sarà comperata dai cinesi”.
Dico solo che ieri, accanto a me, pur a cinquanta chilometri di distanza, c’erano anche Zeno e il suo fantastico compagno di tifo, Gabri, undicenni che per la prima volta sono andati al bar da soli, giù al Bicerì, in via Santa Caterina, sotto casa mia. Abbracciati stretti stretti, stavano a guardarsi l’Atalanta.

Matteo Bonfanti

FOTO FRANCESCO MORO