L’avresti detto mai dieci anni fa nel garage di Valgreghentino quando ogni mercoledì quel genio di Claudio ci accompagnava con la sua meravigliosa Telecaster bianca e celeste? “Che farò lontan da te, pena dell’alma, senza vederti, senza averti, né guardati, anche lontano non saprò dimenticarti…”. Che a mio figlio Vinicio quei versi sono costati il nome e ancora s’incazza qualche mattina perché vorrebbe chiamarsi quell’attimo più normale, Stefano, Davide o Luca (ma non il Luca di Silvia lo sai, quello che si buca, più il Luca che abita sopra di te).
Manchi stasera, ma faccio altro, sono grande e lavoro tanto, sistemo il primo libro di una scrittrice, ma ti verrei anche a cercare se solo avessi una vaga idea di dove ti abbia lasciato l’ultima volta che ci siamo visti, un secolo fa quando il covid non c’era ancora e si suonava e si ballava fino all’alba. Vorrei accarezzarti, ma dovrei girare mezza provincia, fare un salto al Pacì, poi al Bopo, poi al Florian, poi al Tamburlano, che magari sei rimasta lì a festeggiare dopo l’ennesimo concerto fatto alla cazzo, tentato solo per fare limonare a caso i miei soliti sette spettatori, la famosa banda dei bergamaschi teneri e sordi. Oppure dovrei chiedere a Gre, che magari ti ha perduta su un prato appena sopra a Monasterolo, o provare a scovarti a Valbrembo, nella villetta di Ermallo, o tra la spazzatura nel baule della mia Pandona, tu che sei la sola che da trent’anni mi sta sempre accanto, la mia chitarrina che mi ha regalato mio zio Sandro appena sono diventato alto e grosso, persa e ritrovata mille volte, insomma mia. Adesso ti vorrei tra le mani per una velocissima Please, please, please, let me get what I want, il mio momento, anche con te.
Matteo Bonfanti
Nella foto: la mia chitarrina l’ultima volta che l’ho vista, era nell’incasinatissimo baule della Pandona