L’altro giorno, mentre vagavo in un parco della mia città cercando mister Tambourine, ho visto un ragazzo che tornava dal suo allenamento. Scendeva dal pullmino della Virtus CiseranoBergamo, era stanco dopo l’allenamento, ma con quel sorriso luminoso che si ha solo a quell’età per via di quel meraviglioso sogno che è il pallone in un piccolo grande club. L’ho guardato, mi ha guardato, ci siamo fatti un cenno, ci siamo riconosciuti, lui all’inizio di quel fantastico viaggio che si fa quando la domenica l’arbitro chiede il tuo nome e tu ti giri dicendo forte il numero, io alla fine, ma sempre e comunque col sette sulle spalle, del resto sono nato sotto il segno dell’acquario, in campo come nella vita la fantasia al potere: il dribbling in difesa, il lancio di prima, la conclusione al volo e chissenefrega se finisce fuori dalla recinzione. Vale tentarla, al massimo domani mattina il magazziniere andrà a recuperare il pallone in riva all’Adda.
Ieri sera sono andato a trovare mio babbo che deve farsi tre settimane all’ospedale di Ponte San Pietro anche se da un po’ sta bene bene, è in forma, in gamba, brilla. Ero coi miei figli, Zeno e Vinicio, e c’era pure mia mamma, la famosa e mitica Valeria, tra le poche anime elette di questo pazzo pazzo mondo. C’erano quattro delle sette persone che mi amano. Non ne ho tante, ma come Eddie Vedder posso considerarmi un uomo fortunato, perché qualcuno non ne ha nessuna mentre altri appena una. Dopo una mezzoretta di chiacchiere sono uscito dal policlinico, da solo perché era un’altra di quelle sere che sentivo che mister Tambourine mi stesse aspettando. Ero sicuro fosse sul piazzale, pronto a cantarmi la canzone che da ragazzo suonavo con Fabrizio, Nicola, Teti, Stefano, Alberto e Vito. Tum, bum, “Once upon a time you dressed so fine, you threw the bums a dime in your prime, didn’t you?”, e la sognavo bellissima, con quel tiro, giovane, fottuto e irriverente del nostro primo concertino all’oratorio di Bartesate: la mia voce roca e stonata, i loro strumenti accordati e lucenti, chitarre, basso, tastiera e batteria semplicemente perfetti. Ma mister Tambourine non c’era, c’erano solo la pioggia, il vento e il freddo. Allora per scaldarmi mi sono messo a gridarne il ritornello, “How does it feel, how does it feel, to be without a home, like a complete unknown, like a rolling stone?”. Ed è stato un attimo, trenta secondi, mi sono girato e avevo accanto i miei bambini, grandi, ormai ragazzi, lì ad abbracciarmi, a darmi la mano.
Mentre scrivo le mosche mi tormentano, che da ore coi colleghi ci chiediamo come abbiano fatto ad invadere la redazione e soprattutto perché abbiano scelto il mio schermo quale luogo dei loro accoppiamenti. Abbiamo appena finito di fare il giornale e per caso Marco ha messo “Mister Tambourine”, che finalmente si è deciso a suonare una canzone per me. E quel che sento è che ancora una volta lo seguirò.

Matteo Bonfanti