Così, su una panchina circondata da un mare di margherite, ho visto cinque bambini giocare a pallone, quello in porta e gli altri quattro, a scartarsi. Ed ho pensato che questo incubo è davvero finito, la mia città martoriata è riuscita a passarlo, facendosi un sacco del male, rischiando di lasciarci le penne perché era confusa e spesso dava retta a mille stronzi al comando, soprattutto politici e imprenditori, ma pure giornalisti laureati, mai onesti, sempre al soldo. Ma il meraviglioso posto dell’anima mia si è salvato ed ora è vivo. Sapeste la gente, i papà e le mamme, ovviamente mascherati, i nonni, le nonne, vaccinati, i cani buoni buoni. E mi sono unito a lei, la mia Bergamo, che amo, che risponde sì a qualsiasi mia idea, ogni parola, persino quelle confuse da questo tempo infame, addirittura beccata ieri sera a canticchiare le note della mia chitarra, che sono pessime perché suono e mi prende di essere sfigato, un sacco pop, il peggio, la mia anima in vendita, nazionalpopolare.
Ed ero a Monterosso, nell’integrazione, e manco volevo che quel mio attimo finisse mai, guardare Bergamo, la mia donna, dalle gambe lunghe e dal seno abbondante, toccarla, giocarci, gli occhi negli occhi appena prima di fare l’amore, perché era così bella con quel contorno azzurro, che col nero è il suo colore, l’Atalanta, il Gasp, Toloi, Muriel a tavola, Vagabondo che son io e Bella Ciao, la corsa in Champions e affanculo ai potenti di turno. E sono andato dal barbiere, che si chiama Marco anche se è cinese, e stamattina ho scelto nell’armadio il mio vestito migliore, un pile grigiastro come il topastro di fogna che sono, giacchina forse di proprietà di Ernesto, il marito di mia mamma, perché quando si hanno due figli adolescenti basta quello, da straccione, ma pulito, messo in lavatrice dalla Vale, mia madre, la sola Madonna che riconosco al mondo.
E ho voglia di far festa, oggi, domani, quest’estate, che così accolto non mi sono sentito mai. E sono Blond Red Head, lo vedete nella foto qui sotto, uguale alla bassista giapponese di un gruppo fenomenale sentito a Milano una sera, millenni fa, al Tunnel di Milano con i miei soci freak, Ste, il suo noise, le chitarre distorte, il seminario lasciato a metà mentre suo babbo non se lo sarebbe aspettato perché a Lecco la regola imponeva che andassimo a pregare un dio cattivo e noioso, che le cose belle non ce le faceva fare manco morti. Chissà che fine hanno fatto, non il Signore e i vari santi, che stanno beati in paradiso a tirarci giù fulmini e saette, dico Ste e la sua famiglia, solo mi dispiace di non avergli ancora scritto grazie per la sua rivoluzione.
E guardo Bergamo mentre è piena di grazia, identica alle nuvole fatte di elefanti che stanno sopra a San Luca, la collina che più adoro di Bologna, tra l’altra mia gente, che presto andrò a trovare perché io sono mezzo di lì e me ne vanto, nato a Lecco, valtellinese, emiliano, romagnolo se d’estate scendo a Cattolica o a Cesenatico, bergamasco, negro, ebreo, latino, slavo, antifascista ogni sera in chiacchiera coi miei figli e con i loro amici, tutti compaesani nati lontano da qui, in Africa, in Ucraina, in Russia, in Sudamerica o nelle case popolari, come i ragazzi dell’Atalanta di cui scrivo, uomini grandi e forti, giganti e speciali, fighissimi.
E sono gay, non me ne voglia Salvini, la povera Melona e i tanti dementi senza rotelle che tengono a ste cazzate retrò per avere a Roma venti migliaia di euro gratis al mese. Sono omosessuale, come tutti gli umani, uomini e donne, personalmente per una percentuale che oscilla dal dieci al quarantacinque, lo vedete pure da quanto mi ha fatto il giovane parrucchiere residente in via Santa Caterina e nativo di Wuham, proprio lì, la nostra città gemella, col mio consenso per le meches per dargli qualche euro in più visto che è un anno che non lavora più.
E’ tutto, mi metto che per tre ore devo fare un lavoro fighissimo fighissimo di grafica, il libretto di un cd solidale, We’re the fubal, tra dieci giorni in vendita per finanziare i poveri cristi lasciati soli da queste merde eccezionali che vivono in tv e adesso ce l’hanno con Fedez. Finisco un progetto, il mio, che pare assurdo, ma che vale perché porterà a una festa ad Azzano, a fine giugno, e siete tutti già invitati. Saranno i giorni della rinascita tra un sacco di partite di pallone e cento e passa canzoni al karaoke. Perché è l’ora, adesso che finalmente non c’è più la paura a Bergamo, la mia città, il mio grande amore, che non è razzista, che non è nero nero come quando va via il sole. E’ più azzurro, celeste come i miei occhi mentre guardano cinque bambini, ognuno di un colore diverso, a Monterosso, felici, mentre giocano a pallone due contro due e uno sta in porta. Ovviamente a turno.
Matteo Bonfanti