C’è che c’è il temporale, come ogni volta che decido di prendere la bicicletta elettrica per andare a lavorare. E anche se è una sfiga totale, perché ho una strizza boia di attirare almeno un fulmine, come i giornali nazionali raccontano che succede a un paio di persone più o meno una volta l’anno, cammino tra le nuvole gonfie perché la tempesta sa farmi stare bene bene. La guardo. Ne ho scritto, mi fa danzare, pure quando la mia vita è un disastro, che d’improvviso mi fermo e mi accorgo che tutto mi sta andando male. Ed è quella linea sottile, forse il retaggio di quando ero bambino, le mie primavere in via Boccaccio numero dieci, le nuvole grigie e i tuoni, i casini in casa, il rumore dei piatti rotti, il pianto di mia mamma, il broncio di mio padre. La mia felicità, perché io in cortile continuavo a divertirmi, a giocare, sua santità il calcio, tacco, testa, rovesciata, il ginocchio sbucciato che è quasi una medaglia, ancora, fino al buio oppure oltre, a vederci poco o nulla sotto il mio lampione, con i miei amici, pulcini feriti, disperati e bagnati, allegri uguali a me. E lo sono anche adesso, fuori dal mio ufficio c’è un prato, corro su e giù, mi manca giusto un pallone, un Tango, chissà se pure loro, dispersi in questo mondo, magari a fare due tiri aspettando che spiova, sognando in fondo che non finisca mai. E’ questa la bellezza, trovarsi senza aspettarselo nel fango, nel peggio, godendone all’infinito e magicamente, lontano lontano dal mondo, nel paradiso degli orsi, e io al fubal non ci rinuncio mai, manco ora con le ginocchia in artrosi, il venerdì sera che si gonfiano facendo a gara a quella che mi dà più dolore. Ho iniziato a quattro anni, ne ho quarantasei e domani ho la partita a Orioland, sessanta minuti, forse qualcosa di più, forse un pochino meno, dipende dagli impegni della Carla, sperando che sia brutto, che per le scivolate è il massimo dei massimi.
Matteo Bonfanti