Intanto io, come sono adesso e com’ero prima. Mi accorgo di essere cambiato nel profondo. Ieri sera mi sentivo un altro, qui in redazione fino a tardi, cercando di verificare una notizia da un ospedale della Bergamasca per inchiodare di nuovo la nostra classe politica alla loro drammatica responsabilità in questa strage senza fine. Con Marco accanto, tra mille telefonate, tutti e due a fare giri infiniti per parlare con un dottore, fino allo sfinimento. Tra cento “sì, forse”, altrettanti “no, lasciate perdere”, per la prima volta in venticinque anni di giornalismo ho sentito dentro il fuoco sacro, quello dei cronisti del Watergate, il profondo bisogno di capire, perché lo sappiano tutti, non solo i pochi eletti che muovono i fili, l’ossessione di arrivare a una verità oggettiva, per calmare il mare di parole che stiamo sentendo, dichiarazioni ogni volta di tenore opposto e che ci portano ad aggiungere il vento della confusione alla tempesta di dolore che stiamo vivendo.
Ad un certo punto, mentre Marco ascoltava un ultimo vocale, che ci confermava la storia, togliendoci però la possibilità di scriverla (“è così, noi medici dobbiamo comportarci in questo modo, ma non c’è un protocollo vero e proprio, e se racconterete la vicenda, sarò costretto a smentirvi”), mi è venuto in mente cos’eravamo noi e cos’era il nostro ufficio prima di questa emergenza.
Con Monica, anche lei adesso impegnata dalla mattina alla sera a raccogliere notizie su notizie su questa tragedia, fino a metà febbraio aspettavamo tranquilli l’ora della partita dell’Atalanta, del Villa Valle, del Bergamo Longuelo e dell’Oratorio San Tomaso. Lo scoop più incredibile che potevamo fare era il colpo di mercato della Gandinese, il passaggio del fenomenale fantasista Matteo Bonomi dalla Nuova Selvino in rossonero per via di una promessa fatta al ds Giorgio Robecchi una decina d’anni fa. Tutto passava nella serenità estrema del nostro lavoro, i tre di Bergamo & Sport, due birrette e un intero pomeriggio a chiacchierare di amore e di altri piacevoli misteri scrivendo dell’ultima prodezza difensiva del giallorosso Francesco Del Carro o del golasso dell’eterno Matteo Sora mentre aspettavamo che il Casazza di Bellina scendesse in campo per la Coppa, attendendo nella beatitudine le prodezze in serie di capitan Andrea Guariglia nel recupero del Gorle fissato a mercoledì sera per il brutto temporale di domenica.
Ora io mi chiedo, chi saremo finita questa tempesta infinita? E come sarà il pallone provinciale, appena passerà questo tragico tsunami che si è abbattuto sulle nostre teste? Accanto a inchieste sulle falle del nostro sistema ospedaliero, sui ritardi della politica nel prendere decisioni e sul ruolo delle grandi industrie nel dramma della media Val Seriana, sul Bergamo & Sport uscito lunedì c’erano tanti presidenti, allenatori e direttori sportivi che raccontavano il loro momento. Ed erano, giustamente, persone diversissime dagli allegri, appassionati e spensierati dirigenti che, normalmente, fanno del nostro pallone un pianeta all’insegna del gioco, del ridere, del prendersi e del prendere in giro, felici di evadere dagli impegni quotidiani grazie a un cross, a un dribbling e, soprattutto, a una fragorosa risata nello spogliatoio dopo un bel 3-0 nel derby (con conseguente serata a ballare).
Lunedì in ogni dichiarazione dei nostri eroi, tutte persone che in questi anni sono diventati anche nostri amici, c’era una profonda tristezza, l’angoscia per chi è malato, il dolore per chi ci ha lasciato. C’era, ovviamente, l’idea che il calcio, che di solito è al centro della loro vita, non avesse più alcuna importanza. Torneremo quelli che eravamo? Riusciremo a superare tutto questo?
Riparto da me, che, come tutti, mi sento in un fosso. Oggi mi ha scritto mia mamma, dicendomi che lei e le sue amiche si aspettano un bell’articolo, di quelli pieni di speranza, uno dei pezzi che scrivevo prima di questa brutta cosa. Ci ho provato, ma non ci sono riuscito, perché qui e ora c’è l’estrema vicinanza della morte, sentirla sempre accanto, a due passi dai nostri cari, nelle strade vuote, nelle ambulanze che passano ogni mezz’ora, nell’incessante megafono dei volontari della Protezione Civile, nei tantissimi ricordi che si leggono su Facebook, scritti da amici carissimi che perdono d’un colpo genitori, zii e nonni.
Ma nella Bergamasca c’è di più ed è un altro elemento che ci sta cambiando nel profondo ed è qualcosa di altrettanto angosciante, l’impressione di assistere al crollo delle fondamenta della società di cui facciamo parte, le nostre sicurezze. Scopriamo ogni giorno dalle parole dei medici che gli ospedali sono il centro del contagio, sappiamo che i nostri rappresentanti politici, pur conoscendo benissimo la situazione, hanno deciso di non fare, accumulando un ritardo che si sta verificando fatale in termini di vite umane. Abbiamo prove che ci sono state pressioni per non far chiudere le aziende, e ancora tantissime sono quelle aperte nonostante le parole che continuano a ripeterci dalle reti nazionali. Ci sono dati ed esperti che ci dicono che le strade intraprese dai nostri governanti non portano a nessun risultato, anzi la cessazione dei nostri diritti sta aumentando le vittime. E non hanno un’idea che sia una, l’unica speranza è l’arrivo dell’estate.
E io, prima, al Papa Giovanni andavo un mese sì e l’altro pure per i miei acciacchi alle ginocchia ed era sapere che mi avrebbero guarito come da nessun’altra parte al mondo mentre ora ho paura solo a passarci accanto, ai politici ci credevo, avevo pure un senso di appartenenza a un grande partito nazionale, gli industriali, alcuni, riuscivo a vederli come esempi di straordinaria lungimiranza, come dei padri buoni, a cui affidarsi ad occhi chiusi.
Cosa accadrà dopo? Penso a me, che mi fidavo, ora no. E sono sicuro che continuerò a cercare la verità, impegnandomi in questo, raccontando quello che so, perché cambi, stando accanto a chi soffre, come me, noi, gli ultimi in una fila che non è mai stata così lunga.
Ps – C’è una buona notizia, il nostro avvocato, il bravissimo Roberto Trussardi, è stato contattato da alcuni parenti delle vittime per istituire un’inchiesta di epidemia colposa.
Matteo Bonfanti
Nella foto io e la Dea, in ottobre, meravigliosa amica che non vedo da un mese, come Monica, perché in redazione lavoriamo tutti lontani. Entrambe mi mancano